Donald Trump è tornato Presidente degli Stati Uniti con una vittoria schiacciante, amplificata dal fallimento democratico, frutto dell’incapacità di cogliere le paure dei cittadini, nonostante i buoni risultati economici degli ultimi anni. Spesso i dati statistici non riescono a catturare le sensazioni, le incertezze, le paure e i reali bisogni delle persone. A questa evidente incapacità di comprendere l’umore popolare si è aggiunta una tragica mancanza di coraggio politico, che ha impedito di anticipare il ritiro del presidente uscente Joe Biden, compromettendo la corsa di Kamala Harris.
Esiste un principio che accomuna da qualche decennio le forze democratiche e progressiste dell’Occidente: mantenere il potere, esercitando l’azione di governo, a ogni costo. Questo principio si fonda sull’idea che la governabilità e la stabilità politica siano fondamentali per la crescita economica. Il sistema neo-capitalista predilige stabilità di governo e continuità politica, due elementi che mal si conciliano con le democrazie parlamentari, dove l’alternanza è uno strumento di garanzia per i cittadini, che possono scegliere chi meglio difende i loro interessi di volta in volta.
La sconfitta dei democratici negli Stati Uniti, di per sé, non rappresenta una minaccia per la democrazia, ma è un serio campanello d’allarme per le forze democratiche e di sinistra, che devono ridefinire con maggiore radicalità la propria identità e i propri programmi. Non basta più contrapporsi ai populisti o ai nostalgici delle dittature del Novecento; è necessario spiegare come si intende fermare, e non alimentare, la guerra in Ucraina e la crisi umanitaria a Gaza. Serve una visione chiara per affrontare il cambiamento climatico, aumentare i salari e tutelare i lavoratori precari. In sostanza serve definire se stessi, evitando di inseguire populisti, provocatori e agitatori che usano parole d’ordine che troppo spesso incitano all’illegalità e delegittimano le istituzioni, confondendo i ruoli con le persone che li ricoprono.
La sinistra non ha bisogno di alchimie politiche o formule magiche per creare alleanze che sui territori non esistono e non sono mai esistite. Ciò che oggi si avverte come urgente è una politica che parli davvero delle persone e possa costruire il sogno di una società migliore per le future generazioni. Non servono coalizioni unite per raggiungere il potere, ma idee e progetti concreti per ripristinare nei cittadini la fiducia nella politica e conseguentemente farli tornare a votare in un momento in cui l’astensione rappresenta il primo partito del Paese.
Il futuro già lo vediamo. Una terza guerra mondiale, diversa dalle precedenti, ma altrettanto spietata, si sta combattendo a pezzi come denunciato da qualche anno dal Papa. Due schieramenti si affrontano, pur con cautela per evitare la catastrofe nucleare. Il clima è già cambiato. Dove c’era siccità, ora ci sono inondazioni; gli oceani si alzano e minacciano le terre emerse; a Roma il freddo dura a malapena un mese. La tecnologia avanza rapidamente e senza freni, semplificando le nostre vite, ma aprendo la strada ad una possibile grave crisi del lavoro. Fare politica ignorando questi temi significa condannare la sinistra all’irrilevanza e lasciare campo libero a chi vuole affidare la democrazia alle autocrazie digitali, nelle mani di pochi uomini potenti. È un esperimento che è già cominciato negli Stati Uniti con il sodalizio fra Donald Trump ed Elon Musk. Musk è un uomo ricchissimo, un visionario e soprattutto un attore geopolitico assoluto. Viene trattato come un capo di Stato, il cui Stato però non ha confini. Possiede una sua intelligenza artificiale generativa, fornisce satelliti per le telecomunicazioni e l’uso di armi, detiene il più grande social network che fa politica e propaganda attiva ogni singolo giorno. Ha un potere assoluto che non è soggetto ad alcun tipo di controllo, nemmeno quello democratico. C’è un tentativo abbastanza condiviso nella Silicon Valley, o comunque tra i tecnologi e i guru, di ridurre la politica a una questione tecnica, a tecnocrazia o addirittura tecnologia. Trasformare la politica in qualcosa che non richiede più la mediazione umana. Per chi è amante delle anticipazioni di Hollywood, è un qualcosa già raccontato nel 2021 dal film “Don’t look up”, dark comedy apocalittica che raccontava proprio di un guru della tecnologia che telecomandava la Presidente degli Stati Uniti, accompagnando il mondo verso la catastrofe e l’uomo verso l’estinzione.
Intendiamoci, sono profondamente convinto che l’innovazione tecnologica sia uno strumento straordinario per l’evoluzione della società e dell’umanità intera. Lo dico di ritorno dallo Smart City Expo di Barcellona, dove la scorsa settimana, insieme al sindaco Roberto Gualtieri, abbiamo presentato i progetti per trasformare Roma in una smart city sostenibile (clicca qui). Tuttavia, usare la tecnologia senza considerare l’impatto che provoca nei confronti delle persone e della società rischia di ampliare le disuguaglianze anziché ridurle. L’innovazione deve essere etica, sostenibile, libera e capace di coinvolgere le persone che la useranno. Questa sarà la nuova frontiera fra le forze democratiche e i rigurgiti estremisti di ogni latitudine.
L’Europa si trova all’ultima chiamata. Deve immaginare un futuro democratico alternativo allo scontro tra Est e Ovest. Questo è il compito dell’Europa, in memoria dei milioni di vittime delle guerre mondiali. È responsabilità dell’Europa regolamentare l’uso delle tecnologie e trovare il modo di far rispettare queste regole anche a Stati Uniti e Cina, come fece con l’euro, i confini aperti e il mercato comune. E spetta sempre a noi, che siamo tra i fondatori dell’Europa, migliorare le condizioni dei lavoratori senza retrocedere sui diritti civili. Non è il momento di temere Putin, Trump o Netanyahu, ma l’assenza di leader politici come è stata Angela Merkel, capaci di esercitare quel ruolo di equilibratore che spetta all’Europa e che nei prossimi anni sarà decisivo per il futuro del pianeta.