Da Bruxelles, dove mi trovo per un viaggio istituzionale insieme all’europarlamentare Matteo Ricci, non posso esimermi dallo scrivere sull’indecente attacco di Giorgia Meloni al Manifesto di Ventotene. Evito volutamente di soffermarmi su come questa provocazione derivi dall’imbarazzo della premier, stretta tra una sudditanza politica verso Donald Trump e un’assoluta irrilevanza nei confronti dell’Unione Europea. Preferisco concentrarmi sull’attacco a quel documento fondativo che ha rappresentato – e rappresenta ancora – le fondamenta del sogno europeo: un’Europa di pace, benessere e cooperazione tra i popoli.
Il Manifesto di Ventotene fu scritto da uomini e donne perseguitati e esiliati dai regimi totalitari, sulle macerie della Seconda Guerra Mondiale e nel lutto per milioni di morti. Contiene idee figlie del suo tempo, alcune ormai superate, ma resta la base su cui si è costruita una visione universale di democrazia e solidarietà.
Roberto Benigni, nel suo spettacolo Il sogno, andato in onda su Rai1 il giorno della festa del papà, lo ha detto meglio di chiunque altro: “L’Unione Europea è un sogno, un’emozione. È l’unico vero custode della democrazia”. A pensarci bene l’attacco di Meloni è anche servito a parlare preventivamente al suo elettorato per provare a demolire uno dei pilastri dell’Unione Europea, nata dal sogno e della visioni di donne e uomini italiani antifascisti.
Senza questo sogno, l’Europa è stata per millenni un teatro alterno di grandezza e orrore, dove la guerra è stata la costante, e il sangue il prezzo. Le parole di Benigni ci ricordano che l’Unione Europea è “un caso unico nella storia dell’umanità. È la più grande costruzione politica, istituzionale, sociale ed economica degli ultimi 5000 anni.” E sì, è ancora un’opera imperfetta, ma resta l’unica vera alternativa ai nazionalismi che, in ogni epoca, ci hanno portato al baratro.
Papa Francesco lo aveva profetizzato: stiamo vivendo una “terza guerra mondiale a pezzi”. L’Ucraina. Il genocidio di Gaza. E forse, purtroppo, altro ancora deve arrivare. In questo caos, in cui si intrecciano guerre di aggressione e crimini indicibili, la comunicazione globale sembra solo aumentare la confusione.
Ci siamo chiesti per anni come mai le generazioni del Novecento non reagissero alle dittature emergenti. Ci siamo risposti che forse non avevano abbastanza informazioni. Ma noi? Noi che le informazioni le abbiamo tutte – anzi, forse troppe – sembriamo paralizzati, incapaci di difendere con le unghie e con i denti la nostra casa comune: l’Europa. La manifestazione di Piazza del Popolo è stato un primo segnale importante, ma serve molto altro. Azioni concrete, parole ferme, nuove alleanze e soprattutto voti. Voti contro le nuove forme di fascismo e certamente a favore di programmi che mettano al centro la riduzione delle disuguaglianze e la difesa dei diritti e delle libertà individuali.
Oggi si parla tanto di un piano di riarmo europeo per i singoli Stati. Dobbiamo accelerare verso un esercito comune. Il sogno europeo è il contrario del nazionalismo, per questa ragione bisogna spingere in direzione degli Stati Uniti d’Europa. Essere visionari e non conservatori.
Perché non ha senso difendere Roma se non difendiamo anche Parigi, Madrid, Berlino e Kiev. Lo abbiamo imparato con il terrorismo islamista, che ha colpito le nostre città e ci ha visto difenderci da soli. Lo abbiamo sentito durante il Covid, quando le frontiere chiuse ci sono sembrate ferite. E l’abbiamo sofferto quando l’Inghilterra ci ha lasciato: tutti, da giovani, abbiamo sognato di vivere a Londra almeno una volta nella vita. È per me inimmaginabile tornare ad essere solo italiani che guardano con paura a quello che c’è fuori dai nostri confini. L’Europa unita è un valore genetico per le nostre generazioni che la guerra non l’hanno vissuta, ma l’hanno respirata nei racconti dei nonni, dei bisnonni, di chi ha combattuto e perso la vita.
Ci risiamo. La battaglia eterna tra democrazia e dittatura è di nuovo qui. Tra bene e male. Oggi si concentra in Turchia, dove il sindaco di Istanbul, Ekrem İmamoğlu – principale oppositore del presidente Erdoğan – è stato arrestato alla vigilia delle primarie. Ho avuto la fortuna di assistere alla sua prima vittoria nel 2019, quando partecipai a diversi comizi della sua campagna elettorale. Socialdemocratico, musulmano liberale, İmamoğlu rappresenta l’unico vero volto alternativo al regime. Il suo arresto è un tentativo di golpe “civico”, per estrometterlo dalla scena politica. Ma la risposta è stata potente: una marea umana è scesa in piazza, guidata soprattutto dai ventenni, giovani che temono per la libertà e il futuro della democrazia.
Ed è proprio in questi giovani che dobbiamo riporre la nostra speranza. Sono la prima generazione veramente transnazionale della storia. Sono nati europei. Nessuno potrà convincerli a tornare alla lira, a chiudere i confini, a negare i diritti civili, a sparare a qualcuno con cui hanno fatto l’Erasmus. Saranno loro a ribaltare, nei propri Paesi, quelle forze politiche che usano il voto di protesta e delle generazioni di delusi per ottenere potere e poi trasformano le persone in carne da macello. A questi giovani dobbiamo parlare, a loro aprire le porte della scena politica. A chi pensa che l’Europa non sia niente dobbiamo raccontare che la pace che abbiamo vissuto è un’anomalia storica, fragile, che possiamo perdere in un attimo. Perché ogni ritorno al nazionalismo è un passo verso la guerra.