Oddio è lunedì #89 – un fronte contro il populismo di destra e sinistra

Quando si decide di combattere un avversario è quantomeno necessario provare a conoscerne i punti di forza e di debolezza, a declinarne una definizione globale in grado di definirne confini e protagonisti, così da poterla calare nella dimensione del nostro Paese. Per prima cosa, di conseguenza, è necessario uscire dalla retorica della divisione superficiale fra democratici e populisti, semplicemente perchè in un sistema con libere elezioni, a nessuno può essere negata la titolarità di definirsi democratico. La crisi delle forze progressiste, quindi, deriva dalla difficoltà di definire la propria identità in antitesi al populismo, un movimento globale che si scambia idee e notizie, spesso in antitesi con i paradigmi dominanti, grazie ai quali si fa forza per il fatto di non essere solitario e isolato, nonostante spesso sia spontaneo e non organizzato. Il populismo è la vera rivoluzione di questo inizio di secolo e sta contribuendo in maniera determinante al cambiamento della politica internazionale, consentendo la nascita di una classe dirigente, la cui vocazione principale è quella di cancellare i vecchi equilibri di potere e di disgregare i sistemi politici basati sulla divisione fra destra e sinistra.

Per questa ragione pur essendo da sempre un fervido antifascista, non mi convince la lettura per cui la sinistra tornerà a vincere le elezioni ingaggiando semplicisticamente un conflitto con la destra, rappresentata in Italia dalla Lega di Matteo Salvini. Questa ipotesi ideologica, già battuta nel recente passato, sfugge al risultato elettorale, che ha premiato in maniera determinante il M5S, un aggregato sociale che ha raccolto il consenso di un populismo di destra e di sinistra, incarnando una rivoluzione della gente comune, ormai orfana di punti di riferimento ideologici. Esiste un populismo senza programmi ed obiettivi, che ambisce all’eliminazione delle classi dirigenti, nella speranza che la dissoluzione dell’attuale globalizzazione possa avere quale conseguenza il ritorno ad un sistema in cui vi siano minori disuguaglianze. E’ un populismo senza cultura di governo, che fa leva sulla paura e la disperazione delle persone. Un populismo che in Italia chiameremmo di destra. Esiste allo stesso modo un populismo più consapevole e colto, costruito da professionalità del mondo della cultura e dell’Università, che vede nel superamento dei partiti politici tradizionali, la possibilità di un avanzamento delle elitè che hanno conquistato il prestigio della società civile. Questo populismo di sinistra esiste anche nel nostro Paese ed in passato ci ha guidato verso l’abolizione del finanziamento pubblico ai partiti e all’inseguimento delle vicende giudiziarie dei politici, invece che all’individuazione di politiche economiche per la crescita. In Italia queste due forme di populismo hanno trovato la propria sintesi nel M5S. Tuttavia il populismo di sinistra è sopravvissuto in parte residuale anche nei partiti di centrosinistra. Per questa ragione concordo con Eugenio Scalfari, quando teorizza la necessità di un fronte anti populista, che tuttavia è ridondante definire democratico per quanto già detto. La missione di questo fronte, infatti, dovrebbe essere quello di battersi contro il populismo di destra e di sinistra, per riformare l’Unione Europea e renderla più simile a quella teorizzata da Altiero Spinelli ed Ernesto Rossi nel manifesto di Ventotene.

A Roma il M5S sta dimostrando ampiamente come alla prova dei fatti una forza populista non sia in grado di amministrare correttamente, senza raccontare bugie e prendere in giro i cittadini che l’hanno votata. E’ di questi giorni la notizia che la Capitale sia risalita al settimo posto fra le capitali mondiali nella classifica del “City RepTrack, stilata dal “Reputation Institute“, che valuta la reputazione delle 55 città più rinomate del mondo. Nel 2016 la città era all’ottavo posto, mentre nel 2017 era uscita dalle prime dieci. Il dato, tuttavia, deve essere letto con attenzione. Roma è in alto per la sua straordinaria capacità di creare emozioni e suscitare empatia. Questo è bastato alla Sindaca Virginia Raggi per comunicare urbi et orbi la propria soddisfazione. Nemmeno una parola ovviamente sul fatto che senza l’aspetto emozionale Roma scenderebbe dal settimo al trentesimo posto. “La differenza fra il giudizio emozionale e quello razionale, che si basa sulla qualità della vita in città” – avvertono gli stessi ricercatori – “può essere il segno di un calo di reputazione nel prossimo futuro“. In altre parole, le emozioni possono passare, mentre i problemi, se non risolti, restano.

A giudicare dai risultati della giunta Raggi, purtroppo, i problemi sono destinati a peggiorare, soprattutto quando vengono negati come ha fatto recentemente l’assessore all’ambiente Pinuccia Montanari, incapace di accorgersi dell’emergenza rifiuti e dei cattivi odori dell’impianto Tmb del Salario. La scorsa settimana l’assessore si è recata in incognito per ispezionare l’impianto, quando questo era stato svuotato dai rifiuti e sanificato. Come per magia la puzza era scomparsa per poche ore, dopo aver appestato il quartiere per tutto il mese di agosto. Bene hanno fatto i minisindaci di centrosinistra a chiedere le dimissioni dell’assessore e nelle prossime settimane porteremo il problema dei rifiuti sotto le finestre del Campidoglio. Sono di queste ore le preoccupanti notizie sui ritardi per i bandi dei centri sportivi municipali, che stanno mettendo a rischio lo sport pubblico e che abbiamo denunciato con la consigliera del VII Municipio Francesca Biondo. A rischio annullamento sembra essere persino la storica maratona di Roma, a causa di errori nel bando pubblico. La Raggi non riesce a tappare le buche, a far ritirare i rifiuti, a manutenere il patrimonio pubblico e adesso rischia di compromettere anche servizi che la nostra città ha sempre considerato come ormai assodati. Le dimissioni da richiedere sarebbero quelle della Sindaca, più impegnata nel seguire il proprio destino giudiziario che a governare Roma.

In queste ultime settimane si è molto discusso sul cambiare nome e simbolo al Partito Democratico. E’ una discussione surreale, che interessa moltissimo chi vuole derogare i limiti delle ricandidature in Parlamento e davvero nulla i cittadini, in attesa di sentire cosa proponiamo per uscire dalla crisi economica, garantendo maggiore sicurezza e giustizia sociale. Quelli che invocano il cambio del brand del Partito Democratico commettono un incredibile errore di fondo perchè sottovalutano la potenza dei simboli, nonostante la storia recente sia lastricata di cambi di nome e design, che mai da soli hanno ribaltato le sorti di un movimento politico. La questione mi ha fatto tornare alla mente alcune pagine interessanti del libro di Yuval Noah HarariSapiens. Da animali a dèi“, un saggio che mi sento di consigliare. Nel libro l’autore ci spiega la potenza dei simboli, raccontandoci la storia della casa automobilistica Peugeot. La Peugeot ha cominciato come una piccola azienda familiare nel villaggio di Valentingney e nel 2011 aveva circa 200 mila dipendenti sparsi in tutto il mondo, la stragrande maggioranza dei quali erano dei perfetti estranei fra loro. Questi sconosciuti cooperano così efficacemente fra di loro da far produrre nel 2008 oltre un milione e mezzo di automobili, con introiti di circa 55 miliardi di euro l’anno. Quando pensiamo alla Peugeot, tuttavia, in che modo possiamo affermare che questa esista veramente? Ci sono le automobili per le strade ovviamente, ma non sono la stessa cosa dell’azienda. Ci sono le fabbriche, i macchinari, i dipendenti, eppure tutti questi insieme non costituiscono la Peugeot. L’autore estremizza il ragionamento e ci spiega come se tutti gli impiegati perdessero la vita in un disastro ed ogni catena di montaggio andasse distrutta, la Peugeot potrebbe continuare ad esistere, chiedere prestiti, assumere nuovo personale, costruire nuovi stabilimenti e produrre nuove automobili. Persino se tutte le azioni della casa automobilistica perdessero improvvisamente di valore, la società resterebbe di per sè stessa intatta.

Questo non significa ovviamente che la Peugeot, come qualsiasi altra grande multinazionale, sia invulnerabile. Al contrario se un giudice dichiarasse lo scioglimento della società, pur rimanendo in piedi le sue fabbriche e attivi i suoi operai e manager, la Peugeot quale società svanirebbe immediatamente. In sostanza, quindi, la Peugeot non ha alcuna connessione essenziale con il mondo fisico, perchè è un’invenzione della nostra immaginazione collettiva. E’ quella che si chiama una finzione giuridica. Il leone simbolo dell’impresa simboleggia per l’azienda le tre qualità delle lame Peugeot: velocità di taglio, durezza dei denti e flessibilità della lama. Tuttavia per i consumatori ha un valore emotivo e a volte irrazionale completamente diverso. Può riportare alla memoria i ricordi della giovinezza, quando da neo patentati si guidava la macchina dei propri genitori. Può far riaffiorare i ricordi dei primi baci o delle serate con gli amici, fino ad arrivare a simboleggiare, complice il marketing pubblicitario, la voglia di autonomia e libertà, che spesso si identifica con l’acquisto della prima automobile. Ovviamente c’è anche chi sceglie un automobile studiando per mesi su riviste specializzate, ma moltissimi si lasciano attrarre da emozioni e/o particolari spesso irrazionali.

Quello che Yuval Noah Harari cerca di spiegarci è che gli esseri umani sono l’unica specie a poter vivere di pensiero astratto e ad attribuire ad esso un potente significato simbolico. In questo senso il simbolo del Partito Democratico evoca per moltissime persone molto di più di quanto potranno mai rappresentare i suoi leader temporanei o gli esiti di qualsiasi competizione elettorale. Ci sono tantissime persone che da dieci anni custodiscono il proprio certificato di fondatore del Partito Democratico. Ci sono persone che nel Pd non si sono mai candidate e magari mai si candideranno, ma l’hanno sempre sostenuto e votato. Mentre, al contrario, ce ne sono altre che lo hanno usato per raggiungere uno scranno in Parlamento o in qualche amministrazione, salvo andarsene per perseguire i propri fini personali. La questione è molto semplice. Il brand del Partito Democratico è tutto quello che abbiamo. Sono passate le grandi visioni e adunate di Walter Veltroni, le riflessioni di Dario Franceschini, le metafore spesso azzardate di Pierluigi Bersani o i trascinanti discorsi di vittorie e sconfitte di Matteo Renzi. Sono passate le vittorie (poche) e le sconfitte (molte).

Quello che non passerà è il profondo pensiero astratto che ci ha condotto alla nascita del Partito Democratico, l’unico partito moderato di ispirazione progressista che ha qualche possibilità di resistere al populismo di destra e di sinistra. Se ne facciano una ragione quelli che vogliono ricostruirsi una verginità politica, cambiando per l’ennesima volta nome
ad un partito. Il Partito Democratico è prima di ogni cosa uno strumento ideale, che vale molto di più dei suoi parlamentari, dei suoi amministratori, dei suoi dirigenti, dei suoi iscritti e persino di chi lo vota. Il Partito Democratico è l’idea che l’estensione dei diritti civili venga sempre per prima, che la redistribuzione del reddito aiuti i deboli più della flat tax, che la corruzione e le mafie siano il vero nemico della crescita, che le spese per la scuola e la cultura siano importanti come quelle per la sicurezza e che un bravo politico sia quello che sappia far convivere la decisione amministrativa con il principio di legalità. Per queste ragioni chiunque vorrà cambiare nome al Partito Democratico mi troverà dall’altra parte, a difendere la storia e l’orizzonte per cui combatto ogni giorno contro tutti i populismi.

p.s. domenica si è tenuta l’intitolazione del circolo di Tor Bella Monaca ad Alan Kurdî, il bambino siriano di 3 anni divenuto tragicamente il simbolo della crisi europea dei migranti. Il papà di Alan, unico sopravvissuto, e la zia hanno fondato la Kurdi foundation, la quale si occupa di fornire cibo, vestiti e medicinali ai più giovani nei campi dei rifugiati e l’iniziativa di domenica è servita anche a raccogliere fondi da donare alla fondazione. Dopo la Festa dell’Unità cittadina di luglio, torniamo a parlare di politica nazionale e romana. Dal 5 al 9 settembre si terrà la Festa dell’Unità dell’XI Municipio a Largo Santa Silvia a Portuense. Qui è possibile leggere il programma delle tante iniziative. Dal 13 al 16 settembre tornerà anche la Festa di Left Wing, per consultare il programma clicca qui.

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