Molti giornalisti l’hanno già ribattezzato il metodo della stanza chiusa, ovvero quel luogo nel quale la concentrazione massima e il più elevato spirito di responsabilità, ha consentito per l’ennesima volta la nascita della grande coalizione in Germania. Nel Willy-Brandt-Haus di Berlino la leader dei cristiano-democratici Angela Merkel, gli alleati bavaresi della Csu e i social democratici di Martin Schultz hanno trovato l’intesa su un documento di 28 pagine, che ora dovrà passare il vaglio dei delegati della Spd, prima di diventare l’agenda politica del nuovo governo tedesco. La Germania continua a rappresentare, grazie alle proprie scelte politiche, il motore della crescita e il perno della stabilità dell’Unione Europea. Eppure nel nostro Paese viene spesso dipinta come spauracchio negativo, una sorta di spettro causa dei nostri mali. La colpa è sempre degli altri in sostanza. La realtà è ben diversa ed è tutta nel dibattito politico stagnante al quale siamo ormai assuefatti.
Nel nostro Paese le forze politiche sono incapaci di trovare un accordo programmatico persino prima del voto. Le alleanze troppo spesso sono il frutto avvelenato di veti incrociati o di lotte personali, che negli ultimi decenni hanno indebolito i poli storici di centrosinistra e centrodestra, creando le condizioni perfette per il beato isolamento del movimento cinque stelle. L’idea di un’alleanza politica scritta in Italia sembra un’ipotesi talmente contro natura, da essere stata al contempo sia la causa principale delle cadute dei governi della seconda Repubblica, che la ragione della nascita di una forza populista e antisistema quale il movimento di Beppe Grillo. Per risultare credibile, il comico genovese ha dovuto soltanto ripetere, durante i suoi spettacoli a pagamento, il mantra del niet alle alleanze con chiunque. L’esatto contrario di quello che dovrebbe essere la politica.
A pensarci bene il metodo della stanza chiusa trae origine dalla psicologia dei giochi. Negli ultimi anni sono nate, in tantissime città anche italiane, le escape room. L’escape room è un gioco nato qualche anno fa negli Stati Uniti, prendendo spunto dai videogiochi nei quali ci si trova chiusi all’interno di una stanza con l’obiettivo di trovare tutti gli indizi, cercare le chiavi nascoste e risolvere gli enigmi per uscire dalla stanza. La differenza è che nel mondo delle escape room reali si deve provare ad uscire da una stanza fisica, insieme ad una squadra di persone, entro un’ora. Chi l’abbia provata almeno una volta può capire bene di cosa stia parlando, mentre chi non ha ancora fatto quest’esperienza deve provare ad usare l’immaginazione. Cosa può accadere ad un gruppo di persone, costrette in una stanza piena di problemi da risolvere in un ristretto arco temporale? Quello che capita più spesso è che emergano le vere personalità di quelle persone, con conseguente insorgenza di conflitti e contrasti, una meccanica talmente istruttiva da convincere molte aziende ad utilizzare questi strumenti, in aggiunta ai tradizionali colloqui per la selezione del personale. Questo perchè molto spesso le aziende cercano le persone più capaci di lavorare in squadra per ottenere un obiettivo comune. Ampliando la scala del nostro esempio ad un Paese, una delle più grandi escape room potrebbe essere il Parlamento, quel luogo legislativo dal quale si dovrebbe poter uscire, soltanto dopo aver elaborato le migliori soluzioni possibili per i cittadini. Il metodo della stanza chiusa applicato ai politici italiani mi piacerebbe davvero vederlo, per capire chi avrebbe il coraggio di scrivere in 28 pagine le proposte da portare avanti per il bene del Paese. Sono convinto che a quel tavolo il Partito Democratico si siederebbe con lo stesso spirito dei social democratici di Schultz.
C’è però un’alternativa alla grande coalizione ed è quella di vincere le elezioni politiche. Il Partito Democratico farà una campagna elettorale con tantissime proposte per il futuro, ma non sono daccordo con quelli che dicono di non rivendicare quanto fatto in questi anni. Dopo la catastrofe del 2013 (governi Berlusconi e Monti), i governi Letta, Renzi e Gentiloni hanno riportato il segno positivo in tutte le statistiche. La crisi economica non è ancora passata, come in tutto il mondo del resto, ma il Paese sta ripartendo. Le riforme si valutano nel lungo periodo, ma già nel medio termine stanno dando alcuni dei risultati sperati. Rivendicare di aver risanato i conti e creato posti di lavoro non è soltanto necessario, ma persino doveroso. Si può certamente fare di meglio sul lavoro e sulla riduzione delle tasse, ma sfido chiunque a fare meglio di questa legislatura sui diritti. La legge sulle unioni civili, sul dopo di noi per le persone con disabilità, contro il femminicidio, il capolarato, le dimissioni in bianco, il cyberbullismo e lo spreco alimentare, la riforma del terzo settore. E ancora le leggi sui minori non accompagnati, sull’autismo, sul divorzio breve e il biotestamento.
Molte di queste leggi, alcuni dei politici che si candideranno il 4 marzo contro i democratici le promettevano da vent’anni. Sono state fatte in cinque anni da ministri e parlamentari che hanno almeno vent’anni di meno di quelli che ancora si ostinano a promettere che faranno meglio. La rottamzione è stata anche questo, tornare a quelli che c’erano prima sarebbe fatale. Come lo sarebbe provare chi come Luigi Di Maio non propone nuove leggi per migliorare la qualità della vita dei cittadini, ma lancia il progetto di abolire quelle che ci sono. Al candidato grillino andrebbe ricordato che per abolire una legge c’è gia lo strumento del referendum. Al contrario quando si chiedono i voti per andare al governo, le leggi vanno scritte e approvate.
Lo sanno bene i grillini romani, che non potendo rispondere nulla sul dramma dei rifiuti o sul fallimento del trasporto pubblico, hanno pensato bene di fondare la religione new age dello Spelacchio, l’albero di Natale nato morto, ma sempre vivo nei nostri cuori. Il Comune ha deciso la pubblicazione di un libro con i messaggi che la “ggente” ha scritto al povero tronco, i cui resti diventeranno giochi per bambini e una non meglio identificata opera da esposizione. L’idea del libro commovente, oltre che per elargire qualche altra risorsa pubblica agli amici, rientra pienamente nella retorica settaria del movimento, che usa armi di distrazione di massa per distogliere l’attenzione degli attivisti dai tanti problemi di Virginia Raggi.
Sui rifiuti l’emergenza è allarmante, come ci ha ricordato Maria Teresa Maccarrone, dal 2011 battagliera cittadina che lotta per la chiusura del Tmb Ama di via Salaria (clicca qui). In questi diciotto mesi per il Comune di Roma sono passati due assessori ed entrambi hanno raccontato bugie sia sulla raccolta dei rifiuti che sulla chiusura dell’impianto di via Salaria. La verità l’ha probabilmente rivelata la candidata alla Regione Lazio Roberta Lombardi, nel disperato tentativo di provocare meno danni di Di Maio, reo di essersi inventato l’imminente apertura di tre nuovi impianti a Roma, di cui in realtà non c’è alcuna traccia.
La Lombardi abita in III municipio e grazie a lei il territorio ha avuto, speriamo ancora per poco, quale presidente municipale la sua amica Roberta Capoccioni. Pur abitando in III municipio, tuttavia, la Lombardi vive assai distante dai miasmi dell’impianto, dove non si è mai vista in questi anni durante la numerose manifestazioni dei cittadini. La ragione probabilmente è spiegata dalle sue incredibili parole, pronunciate durante la puntata della trasmissione Piazza Pulita (clicca qui). Secondo la deputata grillina la raccolta differenziata raggiungerà l’85% e a quel punto “un residuo indifferenziato bassissimo potrà essere trattato negli impianti già esistenti, magari ammodernati“. Sorvolando sul fatto che la raccolta differenziata non funzioni bene nemmeno adesso, viste le denunce che arrivano da tutta la città, il Tmb Ama Salario rimarrà aperto e al massimo sarà ammodernato. Parole quelle della Lombardi che non faranno di certo stare tranquilli gli abitanti di Fidene e Villa Spada.
I grillini sono così. Sono interessatissimi alla vita dopo la morte di Spelacchio, ma se ne fregano di chi ha necessità di presentare prima possibile la domanda per ottenere il reddito di inclusione, la misura varata dal governo Gentiloni per sostenere i redditi molto bassi. Proprio nei giorni scorsi abbiamo appreso dal sito del III municipio, che dal 16 gennaio saranno riaperti gli appuntamenti per la presentazione delle domande e che il servizio sarà potenziato con l’apertura di ulteriori sportelli, per consentire ai cittadini che ne faranno richiesta di anticipare i propri appuntamenti. Gli ultimi dei quali sono stati dati a gennaio 2019. In VI Municipio il vicesegretario democratico Mariano Angelucci ha mostrato in un video (clicca qui), come gli sportelli non siano abilitati nemmeno per prendere gli appuntamenti per la presentazione della domanda, ma sia invece necessario rivolgersi a numeri telefonici che spesso squillano a vuoto. I cittadini sono costretti ad un assurdo gioco dell’oca. Questo perchè i municipi stanno soffrendo la disorganizzazione del Comune di Roma, che a causa della direttiva Raggi sta impallando il sistema di presentazione delle domande. Basterebbe revocare la direttiva Raggi e seguire la legge, che prevede che le domande si possano presentare direttamente a sportello tramite gli uffici protocollo.
Questo fine settimana il Partito Democratico di Roma è tornato in Piazza con oltre cento banchetti in tutta la città per sostenere l’azione dei governi democratici e il buon governo di Nicola Zingaretti nel Lazio (clicca qui). Una mobilitazione che deve aver infastidito Paolo Ferrara, capogruppo del M5S in Campidoglio. Non potendo più pubblicare video e fotografie di una città sempre più sporca, degradata e abbandonata a se stessa, il povero Ferrara ha deciso di condividere sui social un video, nel quale un gruppo di ragazzi cercano di dare fuoco ad una tessera del Partito Democratico. Un atto grottesco e vile, che non ha nulla di politico, ma richiama al contrario sentimenti di odio e violenza. Il M5S dovrebbe chiedere pubblicamente scusa ed allontanare personaggi del genere. Sono certo che la risposta del popolo democratico sarà ancora una volta l’orgoglio di appartenere ad una delle più grandi comunità politiche del nostro Paese.
Chi nel fine settimana ha avuto la fortuna di parlare con i cittadini, avrà certamente colto la rabbia e la sfiducia che serpeggia nelle nostre periferie. E’ un clima che il film di Riccardo Milani, dall’ironico titolo “Un gatto in tangenziale“, ha raccontato davvero molto bene. Devo dare ragione alla coordinatrice democratica del III municipio Paola Ilari, che ha invitato alla visione del film tutti coloro che vorrebbero occuparsi di politica in una città come Roma. Una commedia sociale che mette in contrapposizione due universi diversi, quello dei borghesi e dei borgatari, divisi a Roma da una distanza fisica di una decina di chilometri, ma incapaci di comunicare e di collaborare fra loro al miglioramento della vita della collettività. Un film che usa la risata, per strappare una riflessione su come l’Europa della politica, della finanza e della burocrazia abbia l’obbligo morale ed etico di trovare gli strumenti concreti per incidere sulla vita dei cittadini che vorrebbe tenere uniti.