Le immagini che arrivano dalla Spagna assomigliano terribilmente alle avvisaglie di una possibile guerra civile. Lo scrittore Javier Cercas, studioso della guerra civile spagnola ed autore del libro “Anatomia di un istante“, che racconta la storia del tentato colpo di Stato del Colonnello Tejero nell’81, lo ha detto chiaramente: “abbiamo già visto un clima simile nel 1934 e siamo arrivati alla Guerra Civile“. Barcellona è una città spaccata in due, da una parte le bandiere della Catalogna, dall’altra quelle spagnole. Il governo di Madrid, in crisi di consenso, ha fatto di tutto per impedire la consultazione referendaria illegale, così come i manifestanti che hanno sostenuto il referendum per l’indipendenza si sono organizzati per occupare scuole e uffici, così da trasformarli in seggi elettorali.
L’uso della forza purtroppo c’è stato, ma fortunatamente le conseguenze sono state minime, anche per la resistenza passiva dei cittadini. Le avvisaglie c’erano già state per tutta la settimana, con il premier Mariano Rajoy, che aveva lanciato la propria offensiva su internet, bloccando tutte le applicazioni utili alla consultazione. Dal canto loro i dirigenti della Generalitat catalana si erano preparata alla resistenza, chiamando a raccolta gli agricoltori che con i loro trattori, si sono messi a scudo dei seggi per impedire l’intervento delle forze di polizia. Le responsabilità della politica per la situazione attuale sono enormi, così come sono incalcolabili i rischi per la democrazia e per l’Unione Europea. Sono due le domande che ci dovremmo porre sulla vicenda spagnola. Può davvero un referendum mettere in pericolo la tenuta democratica di un Paese?
La risposta è affermativa, sopratutto perchè per consentire lo svolgimento del referedum indipendentista, si è completamente ribaltato l’ordinamento giuridico catalano, senza passare attraverso la legge. Siamo di fronte a quello che si definisce golpe e che nella storia non sempre si è presentato con le effigie della violenza. Si può benissimo mettere in crisi la democrazia, usando contro di essa la libertà che ci garantisce. Si possono persino usare fondi pubblici, come per il referendum catalano, per minare le Istituzioni pubbliche. L’uso di un voto popolare al di fuori dei canoni costituzionali e della legalità, per mettere in discussione l’unità nazionale, è un atto politico pericolosissimo, e rappresenta uno strumento usato parecchie volte da aspiranti dittatori del passato.
Detto questo, tuttavia, è necessario riflettere anche su una seconda domanda, che riguarda le modalità della risposta del governo di Madrid. Si sarebbe potuto semplicemente utilizzare il diritto, vista la sentenza del tribunale supremo di Spagna sull’illegittimità del referendum, invece di inviare a Barcellona migliaia di militari, impegnati nell’arresto di funzionari pubblici, nel sequestro di materiali elettorali e nell’allontanamente dei cittadini dai seggi? Rispondere negativamente a questa domanda, metterebbe in evidenza le grandi difficoltà delle democrazie occidentali, sferzate dal terrorismo internazionale e messe in discussione da populismi ed estremismi di varia natura. Non dovremmo mai dimenticare come in democrazia la forma e le regole siano sostanza e il fine non possa mai giustificare i mezzi.
In questo senso il referendum per l’autonomia della Lombardia, seppur molto dispendioso e di probabile strumentalità politica, rientra nelle possibilità offerte dalla nostra Costituzione, che già prevede all’articolo 116 alcune forme e condizioni particolari di autonomia, secondo i rispettivi statuti speciali adottati con legge costituzionale. Lo dimostra il fatto che, persino il quesito referendario del 22 ottobre, abbia nel testo un esplicito richiamo al “quadro dell’unità nazionale“, una sorta di clausola di salvaguardia, che ne garantisce la legittimità e ne rinvia la possibile efficacia ad un intervento legislativo del Parlamento. Questo è il principio cardine della democrazia. Anche quando la battaglia politica diventa dura, si deve rimanere dentro i confini delle regole costituzionali e della legalità.
Il contrario di quanto fatto dai manifestanti contro il G7 di Torino, dove oltre alle violenze fisiche, c’è chi ha pensato bene di riesumare una ghigliottina per tagliare le teste di Matteo Renzi e Giuliano Poletti. Il segretario del Pd l’ha definita una pagliacciata, se non fosse che durante gli scontri, a prendere le botte sul serio siano stati gli uomini della polizia e dei carabinieri, che invece di essere difesi dagli amministratori, si sono ritrovati pure alcuni esponenti politici nel corteo. E’ davvero assurdo vedere politici che vorrebbero governare il Paese, sostenere la violenza da strada e rilanciare le immagini della ghigliottina.
Chattano ogni giorno sulla piattaforma Rousseau, ma hanno studiato poco la rivoluzione francese e l’epilogo del regno del terrore. E immagino conoscano poco anche Hegel, il quale sosteneva come il “terrore recepì la teoria di Rousseau sulla necessità, da parte delle volontà particolari, di identificarsi sempre con la volontà generale: in tal senso la Rivoluzione rese impossibile conservare un governo stabile, poiché ciascun governo, proprio in quanto per sua natura detentore di interessi particolari, si trasforma sempre in una semplice “fazione”, divenendo inviso alla volontà generale. Il Terrore non poteva allora che sfociare nell’anarchia, per la sua connaturata furia disgregante contro ogni istituzione o corpo politico”. Non vi sembra di ritrovarci le recenti farneticazioni di Di Battista sul fatto che un Sindaco o un Presidente non debbano rappresentare tutti, ma solo i propri adepti?
Al contrario c’è da apprezzare il tentativo del direttore del Tg di La7 Enrico Mentana di confrontarsi pubblicamente con Casapound, seppur la sua scelta ha ricevuto parecchie critiche, a mio avviso ingenerose. Se devi combattere politicamente un avversario, che usa il razzismo e la violenza politica per conseguire facili consensi, cercando di intercettare le paure delle persone, la strategia migliore che si possa mettere in campo è quella di normalizzarne l’azione, portandolo a parlare di politica davanti alle telecamere come fanno tutti. Anche perchè spesso lo spazio mediatico che si concede alle idee più estremiste, fortunatamente non si concretizza in un voto nel segreto dell’urna.
Può esserne un esempio concreto la parabola del M5S. Il movimento di Grillo è nato con delle idee condivisibili, che avevano quale collante la necessità di una classe politica onesta, una lotta reale alla corruzione e allo spreco, l’abolizione dei privilegi e la ricerca di una forma di reddito per le persone maggiormente in difficoltà. La forza di queste idee si è saldata con il fallimento dei partiti politici tradizionali, che nel recente passato non sono riusciti a riformare il Paese ed anzi, con i propri comportamenti, hanno creato un clima di totale sfiducia verso le Istituzioni. Gli eletti del movimento avevano un vantaggio rispetto a tutti gli altri, non avevano colpe da farsi perdonare e non avevano avvisi di garanzia negli armadi. Semplicemente perchè non avevano governato nulla e quindi dovevano ancora confrontarsi con la macchina amministrativa, le sue difficoltà e tentazioni. La presunzione di onestà, di conseguenza, non si era ancora scontrata con la realtà dell’azione politica-amministrativa. Questo stato dell’essere transitorio del grillino medio, spiega la ragione per la quale adesso, dopo aver amministrato città come Roma, Torino, Parma e Livorno, i grillini abbiano improvvisamente deciso di cambiare le proprie regole, arrivando persino a tollerare le richieste di rinvio a giudizio per i propri esponenti. Proprio loro che chiedono le dimissioni per un qualsiasi avviso di garanzia.
Tuttavia a Roma in questi giorni si è travalicato un limite. La richiesta di rinvio a giudizio per falso della Sindaca Virginia Raggi, dopo appena 15 mesi di mandato, ha riportato alla luce la Virginia, ex consigliera grillina di opposizione. Nel giro di 24 ore Virginia ha prima scritto un post sui social, nel quale esultava per l’archiviazione dell’accusa per abuso d’ufficio, dimenticandosi di citare la richiesta di rinvio a giudizio per falso in atto pubblico per il pacchetto di nomine, nel quale è coinvolto il fratello di Raffaele Marra, già a processo per corruzione e arrestato nel dicembre scorso. Poi ha dato il via libera alle accuse del movimento nei confronti dell’Oref, l’organismo indipendente di revisione economica e finanziaria che ha bocciato nuovamente il bilancio farsa del Comune di Roma.
Secondo i grillini l’Oref farebbe politica, accusa bislacca per un organismo tecnico, ma circostanza ancora più incredibile, non sarebbe attendibile poichè – secondo la deputata pentastellata Laura Castelli – due dei suoi membri sarebbero indagati per bancarotta fraudolenta e “farebbero bene a dimettersi“. Per capire come le accuse di politicizzazione dell’Oref siano l’ennesima balla grillina, basta ascoltare le parole della Virginia maestra d’opposizione di due anni fa.
Ricapitoliamo quindi. Se la Sindaca viene indagata, è tutto bello, bello, bellissimo. Se viene rinviata a giudizio, non c’è problema, il M5S si è riscoperto garantista. Ma quando ad essere indagati sono gli altri, anche se non sono politici, devono dimettersi. Una volta si sarebbe detto la fantasia al potere. In verità, oggi a Roma, la malafede è al potere. La Raggi e la sua amministrazione si sono ormai caratterizzati per le loro bugie e per un’insopportabile doppia morale.
Intendiamoci il Partito Democratico è garantista sempre e per tutti, persino con la bugiarda seriale che siede in Campidoglio. D’altronde i casi incredibili di Ottaviano Del Turco e Filippo Penati sono li a ricordarci come le carriere politiche vengano distrutte in pochi giorni, mentre le assoluzioni arrivino dopo anni e senza le scuse di nessuno. In realtà la Raggi dovrebbe dimettersi per tantissimi buoni motivi. Primo fra tutti per essere precipitata all’88esimo posto tra i Sindaci d’Italia, un vero e proprio tracollo. La Raggi dovrebbe dimettersi per tantissime ragioni: per i rifiuti che invadono le strade e per il recente accordo con il Re della monnezza Cerroni; per il concordato preventivo di Atac; per l’incapacità nelle disinfestazioni; per il ritorno dei camion bar nella città; per l’assenza totale di sicurezza e decoro; per gli incendi che hanno incenerito i nostri parchi e per le centinaia di buche rimaste sulle nostre strade; per gli assurdi limiti di velocità imposti sulle vie consolari; per il disastro sul progetto dello Stadio della Roma e per il no ideologico alle Olimpiadi; per la messa in mobilità dei lavoratori della Multiservizi e per aver impallato la macchina amministrativa; per aver messo in crisi lo sport pubblico e aver tagliato i servizi sociali. Insomma la Raggi non dovrebbe tornare a fare l’avvocato per le questioni giudiziarie che la vedono protagonista, ma per l’innata incapacità politica ed amministrativa dimostrata sul campo. Rimarrà, invece, incollata alla poltrona del Campidoglio, per garantire la campagna elettorale del suo sponsor Luigi Di Maio e per boicottare quella alla Regione Lazio della sua storica avversaria Roberta Lombardi. Dovevano essere quelli nuovi ed onesti, si stanno dimostrando persino peggio di quelli che criticavano.
Il Partito Democratico di Roma conclude stasera il festival dell’Unità di Testaccio alla presenza del Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni (ore 20). Abbiamo vissuto un mese impegnativo e ricco di iniziative politiche e di eventi per la città. E’ stata l’occasione per far conoscere il nuovo Pd che in città ha i volti di una generazione, che vuole rilanciare la capitale e rivendicare il ruolo di Roma per la crescita e lo sviluppo del Paese. Sono uomini e donne che nei prossimi anni incontreremo nei municipi, per le strade e le piazze, al fianco dei cittadini che combattono una battaglia per migliorare la qualità della vita della città. Sono quelli che, sabato sera, si sono scusati con i comitati di quartiere del III municipio per non essere riusciti a chiudere il Tmb Salario, ma che continueranno a combattere al loro fianco per arrivare all’obiettivo.
Sono persone che si battono per vedere garantiti i nuovi diritti, come quelli per lo Ius Soli, la cui legge attende un atto di coraggio del governo affinchè possa essere approvata in Parlamento, anche con il ricorso al voto di fiducia. Un atto di coraggio come quello del ragazzo di origini africane, che mentre chiedeva l’elemosina al Carrefour Express di Piazza delle Conifere, ha placcato e disarmato un rapinatore italiano pluripregiudicato ed armato di mannaia (clicca qui). Per sostenere il dibattito pubblico sull’argomento e non derubricarlo a questione di rapporti fra alleati di governo, assieme a tanti membri dell’assemblea romana del Partito Democratico, abbiamo sottoscritto un ordine del giorno (clicca qui), aperto a tutti, per chiedere ai parlamentari eletti a Roma di collaborare al percorso di approvazione della legge. Sapremo spiegarla ai cittadini, che chiedono una regola certa, in grado di affrontare con serietà la grave questione dell’immigrazione clandestina. In democrazia per risolvere le questioni non si costruiscono muri o si limitano i diritti, ma si approvano e si fanno rispettare le leggi. Il Partito Democratico esiste affinchè non si smetta mai di difendere questo principio cardine del nostro vivere liberi e insieme.