Oddio è lunedì #249 – fine di un sogno distopico di un’estate italiana 

Stadio Olimpico di Roma, l’aria è densa, quasi palpabile, carica di attesa. È l’88° minuto. L’arbitro messicano Mendez ha appena fischiato un rigore per l’Italia. Gli azzurri sfidano la Germania Ovest, alla vigilia della riunificazione. La Germania Ovest è una squadra potente, ma ora il destino pende dalla punta di una scarpa, dalle gambe del palermitano Totò Schillaci, che fino ad ora ha trascinato l’Italia in finale con i suoi gol e i suoi occhi spiritati. Gli occhi di milioni di italiani sono puntati sul dischetto. Il Paese intero trattiene il fiato.

Schillaci avanza lentamente. Ogni passo taglia il silenzio teso dello stadio. Il portiere tedesco Bodo Illgner si prepara, fissando il pallone come fosse un nemico. Ma Schillaci non trema. Un attimo, uno scatto, e la palla si stacca dal terreno. Si infila nell’angolo basso, imprendibile. Gol. Gol! Il boato dello stadio esplode come un tuono, scuotendo l’intera città di Roma e l’Italia intera. L’Italia è campione del mondo.

Totò Schillaci viene sollevato in trionfo, portato sulle spalle dei suoi compagni. L’Olimpico vibra di gioia pura, incontenibile. Gli applausi riempiono l’aria, mescolandosi ai cori che risuonano nei cuori di milioni di italiani. Per le strade del Paese cominciano i primi caroselli. La Coppa del Mondo brilla sotto i riflettori, pronta a essere sollevata ancora una volta, dopo il trionfo spagnolo di otto anni prima.

A Palermo, Giovanni Picco salta dal divano. È a casa da solo. Piange. È un sogno che si realizza. Una gioia incontenibile. Gli occhi incollati al televisore, guarda con orgoglio Schillaci intervistato su Rai 1. La giornalista sorride mentre porge il microfono. “Totò, cosa significa per te questa vittoria mondiale?”

Schillaci guarda dritto in camera e risponde, senza esitazioni. “Vorrei che questa vittoria portasse tutti gli italiani a unirsi nella lotta contro le mafie.” Poi viene travolto dalla gioia incontenibile dei suoi compagni di squadra. 

Giovanni si asciuga le lacrime. Le mani gli tremano mentre prova a ricomporsi. Pensa per qualche secondo, poi si alza dal divano e si dirige verso il vecchio telefono a filo del suo appartamento. Compone tre cifre in rapida successione. Il cuore gli batte forte, ma le dita restano ferme, decise.

“Pronto, sono Giovanni Picco e chiamo da Palermo. Vorrei autodenunciarmi. Stiamo progettando di far saltare in aria il giudice Giovanni Falcone.”

Dall’altra parte della cornetta, un silenzio irreale. Passano minuti che sembrano eterni. Poi una voce, breve, fredda.

Giovanni annuisce. “Vi aspetto qui, a casa mia. Grazie.” Abbassa la cornetta con calma.

Torna a sedersi sul divano, un sorriso sottile si disegna sul suo volto. La nazionale azzurra alza al cielo la Coppa del Mondo. L’Italia è campione del mondo. Giovanni guarda la televisione, ma i suoi pensieri sono già altrove.

Quello che avete appena letto è l’incipit di un romanzo distopico che conservo nel cassetto da oltre dieci anni. In esso immaginavo come l’entusiasmo per la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 1990 avrebbe potuto darci la forza di combattere davvero le mafie e guidare l’Europa, come poi riuscì a fare la Germania unita, dopo la vittoria di quella manifestazione sportiva. Oggi ho finalmente il coraggio di condividerlo, profondamente toccato dalla prematura scomparsa di Salvatore Schillaci la scorsa settimana. La sua morte mi ha colpito nel profondo.

Totò fa parte della mia infanzia, delle “Notti Magiche” di quel Mondiale dove tutto sembrava ancora possibile per il nostro Paese. Era un tempo in cui si poteva credere che l’Italia potesse cambiare, prima che fossimo travolti dalle stragi di Falcone e Borsellino, l’inchiesta di Mani Pulite e il lungo ventennio berlusconiano. La scomparsa di Schillaci segna la fine di un’epoca, quella di un calcio che ci faceva sognare e forse per me di un sogno più grande, quello di un Paese migliore, libero dalle mafie e dalla corruzione. Con Totò se ne va non solo un campione sportivo, ma anche un pezzo di quella speranza che nutrivamo da bambini, quando urlavamo a squarcia gola per un gol e, forse inconsapevolmente, per un’Italia diversa.

Altri articoli