C’è un’immagine più di altre che mi ha straziato in queste ultime settimane. Quella di Liliana Segre che con straordinaria dignità morale ed istituzionale lascia lo scranno della Presidenza del Senato al neo eletto presidente Ignazio La Russa. Quella scena è una ferita terribile. Un nostalgico del ventennio mai pentito ricopre la seconda carica dello Stato Repubblicano. È la sintesi della più grande sconfitta politica del centrosinistra e del Partito Democratico degli ultimi anni. Una sconfitta che non si valuta nei numeri assoluti. Stiamo infatti vivendo il paradosso per cui chi ha dimezzato i voti esulta come M5S, Forza Italia e Lega, mentre chi ha il 19% discute se sciogliersi. Ma che ci obbliga ad interrogarci sulle ragioni per le quali non avremmo mai potuto vincere queste elezioni.
In queste prime settimane ho sentito dire e scrivere di tutto. Dall’idea balzana sullo scioglimento di un partito al 19%, allo stucchevole ritornello ormai ciclico sul cambio del nome o del simbolo. La strategia del cambiare tutto per non cambiare nulla. Ho visto dirigenti nazionali del Partito Democratico responsabili della sconfitta al pari dei diversi segretari nazionali, riproporsi come soluzione del problema come se in questi anni fossero stati dei turisti. Sento parlare ogni giorno di leadership, di alleanze e di auto candidature, ma nessun fiato sull’identità del partito, sull’idea di società che vorremmo costruire e su chi vorremmo rappresentare. Si guarda il proprio ombelico, ma non quello che ci circonda. Viviamo la terza guerra mondiale, ma siccome non siamo al fronte pensiamo sia lontana. Dall’Ucraina ci separano mille e settecento chilometri. In pochi mesi la nostra vita è già profondamente cambiata, dopo due anni in cui la pandemia l’aveva già stravolta. Guardate la bolletta della luce di questo mese. Parlate con un commerciante che sta pensando di chiudere il proprio negozio a fine anno per i rincari dell’energia. Confrontate uno scontrino della spesa di oggi con quello di prima dell’estate. Provate a comprare un biglietto aereo o a fare un pieno di benzina. Il mondo come lo abbiamo conosciuto negli ultimi venti anni non c’è più. Non domani, già oggi.
Il 36% delle persone non è andato a votare a queste elezioni. La prima riflessione dovrebbe toccare questo punto che è strettamente collegato con una legge elettorale pessima che non consente la scelta dei parlamentari, ma che obbliga a polarizzare il voto sui leader che a loro volta scelgono i parlamentari. È una selezione della classe politica che non premia il merito e che slega completamene il Parlamento dai cittadini e dai territori. E quando la politica si allontana dalle persone, le persone smettono di interessarsene. Questa è una precondizione della sconfitta. Sulla rappresentanza non abbiamo detto nulla, perché andava bene così a tutti. Sulla caduta del governo giallo-rosso guidato da Giuseppe Conte e le conseguenti dimissioni del segretario nazionale Nicola Zingaretti si è fatto finta di nulla. Nessuno si è assunto responsabilità, eppure Zingaretti lo aveva detto chiaramente: “si parla solo di poltrone e di primarie”. E nel frattempo, però, si vincevano almeno le elezioni regionali e comunali. Non a caso, a mio avviso, perché dove si scelgono gli amministratori con la preferenza il Partito Democratico e il centrosinistra hanno saputo mettere in campo proposte politiche credibili che hanno convinto le persone.
Ci sono poi le ragioni di merito della sconfitta. Per due anni e mezzo si è discusso di campo largo. Lo si è sperimentato alla Regione Lazio dove governa una maggioranza che va dal M5S alla lista Calenda, ma nel momento della verità le opposizioni si sono divise proprio nella battaglia più importante. Questo è accaduto perché le alleanze sono conseguenza dell’identità. Vengono dopo, non prima. Non si può passare il tempo a discutere di alleanze per vincere, se non si è prima definito cosa si vuole fare dopo aver vinto. Questi non siamo noi. Il centrodestra è abituato a fare così. Si allea per vincere e poi litiga ogni giorno al governo. Ne abbiamo visto le prime avvisaglie con le elezioni dei presidenti di Camera e Senato. Ma noi non siamo così. Noi dobbiamo essere in grado di dare una visione del mondo. Di declinare come vorremo ridurre le disuguaglianze sempre più crescenti. Abbiamo bisogno di dire chi siamo, prima di definire il dove andremo.
Questo non lo si è fatto. E non lo si è fatto per scelta, non per incapacità.. Magari per paura di perdere qualche pezzo storico del partito, ormai sempre più irrilevante nella società. Per timore di doverci schierare in una società che non è più quella globalizzata che ha dato i natali al Pd. Oggi viviamo in un mondo in conflitto. Un mondo diviso, dove non si possono rappresentare gli interessi di tutti e va fatta una scelta di campo netta, capace di definire l’identità e le persone a cui ci vogliamo rivolgere. È una scelta che sono sicuro sapremo fare, mettendo in campo le energie che già esistono nelle tante amministrazioni che guidano Regioni e città in tutta Italia. Serve però un atto di generosità collettivo da parte di chi ha portato il Partito Democratico fino a qui. Nonostante la sconfitta esiste un partito vivo che è la seconda la seconda forza politica del Paese e che è la prima di opposizione. Fare opposizione non è altro che proporre, non è quindi un dramma o una tragedia. Dall’opposizione si possono cambiare i Paesi, si deve stare in mezzo ai movimenti delle piazze, si può aspirare a governare con nuove idee e nuove personalità in grado di incarnarle. La prima cosa da fare non è decidere se allearsi con Conte o con Calenda, ma con quelle milioni di persone che hanno già votato il Partito Democratico in passato e che potranno tornare a farlo se saremo in grado di riconnetterci con loro.