Le immagini dell’insurrezione di Washington hanno dimostrato un concetto piuttosto semplice: quando il populismo prende il potere, se poi rischia di perderlo è disposto a mettere a repentaglio l’idea stessa di democrazia pur di tenerselo. L’ex Presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha davvero provato ad usare frange minoritarie della società americana per fermare la nomina del Democratico Joe Biden a Presidente degli Stati Uniti. Poche ore prima aveva davvero usato toni minacciosi nei confronti del segretario di Stato della Georgia, per intimargli di trovare il modo di ribaltare il risultato elettorale del 3 novembre. Nel pieno delle polemiche per l’assalto a Capitol Hill, Trump ha persino annunciato che non parteciperà alla cerimonia di insediamento di Biden prevista il 20 gennaio. Si è provato, anche in Italia, a ridicolizzare l’assalto al Campidoglio soltanto perché alcuni degli assalitori ci sono apparsi come bizzarri personaggi vestiti come i Village People. Un’analisi davvero superficiale. Come se le tuniche, i turbanti e persino i cappelli da cowboy indossati da Osama Bin Laden o dal mullah afgano Omar li abbiano mai resi in qualche modo ridicoli o meno pericolosi durante i dieci anni di lotta al terrorismo islamista. Non è certo l’abbigliamento che qualifica la pericolosità di qualcuno, ma le idee che veicola e l’ideologia e gli obiettivi che lo spingono ad agire.
Quanto accaduto negli Stati Uniti è una questione mondiale, che chiama in causa la capacità delle nostre democrazie di resistere all’assalto di nuove forme di totalitarismo, che usano la democrazia dei social network per iniettare nella società idee malsane di odio, violenza, intolleranza e soppressione delle libertà individuali. I social network hanno cambiato tutto, perché hanno consentito a milioni di persone sparse per il mondo di comunicare fra loro e scambiarsi informazioni anche senza conoscersi nella realtà. Tuttavia questo continuo flusso di notizie è privo di qualsiasi controllo sull’attendibilità delle fonti e consente a chiunque di svegliarsi la mattina, aprire un profilo social e cominciare a scrivere tutto quello che gli passa per la testa. Queste idee spesso assurde arrivano troppo facilmente sui profili di tantissime persone che ci credono e che non posseggono gli strumenti idonei per sapersi difendere da fake news e false ideologie. I social network hanno creato una sorta di nuova coscienza di classe fra tutte quelle persone che non riuscendo a spiegarsi in altro modo la concatenazione fra gli eventi o la casualità degli stessi, ha la necessità di spiegare la realtà attraverso teorie complottistiche e cospirazioniste. Per molti convincersi di un complotto è l’equivalente cognitivo di scorgere un senso nella casualità e di mettere ordine nel caos delle nostre idee.
In questi giorni anche i proprietari dei principali social network si sono resi conto della pericolosità di fare da megafono a personaggi come Donald Trump. Pensiamo a cosa sarebbe potuto succedere in passato se Adolf Hitler avesse potuto dire tutto quello che pensava da un profilo social invece che dalle piazze, dagli stadi e in radio. I social rappresentano un megafono straordinario e al tempo stesso pericoloso. Pur comprendendo la necessità di silenziare le bugie di Trump per evitare lo scatenarsi di nuove violenze, quanto accaduto in questi giorni ci mette di fronte ad una questione irrisolta. In democrazia è inaudito che degli imprenditori privati possano controllare e decidere chi possa parlare alle persone e chi no. Sono d’accordo con Massimo Cacciari quando scrive che le democrazie non possono lasciare l’onere di questa decisione ai privati. Deve esserci un’autorità terza di carattere politico, così come c’è l’Autorità per la concorrenza e per la privacy, che decide quali messaggi in rete sono razzisti, sono sessisti e incitano alla violenza. Deve essere l’autorità che dice all’imprenditore cosa deve cancellare, mentre invece adesso è il privato che decide a sua discrezionalità. Oggi è giustamente Trump, ma domani potrebbe essere chiunque altro. Quello che deve essere regolato è il potere assoluto con cui oggi i social possono decidere ciò che è giusto o sbagliato. Perché la democrazia fortunatamente resisterà a Donald Trump, ma rimane ancora troppo fragile se può essere ostaggio delle decisioni di imprenditori privati seppur illuminati.
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