Quella che stiamo vivendo è la più grande crisi planetaria dalla seconda guerra mondiale. L’emergenza sanitaria globale, innescata dalla comparsa del Covid-19, ha sprofondato molti governi nell’ansia, costringendo gran parte dell’umanità a rinunciare a molte delle libertà conquistate negli ultimi settant’anni, nel tentativo di limitare e rallentare i contagi, con l’obiettivo di non sovraccaricare i sistemi sanitari dei singoli Paesi. Non uscire di casa, di conseguenza, non rappresenta un atteggiamento passivo dinnanzi alla crisi, ma la modalità attiva, grazie alla quale ognuno di noi può dare una mano a quelli che si trovano più vicini al fronte della malattia e che a casa non possono restare. La rinuncia temporanea allo stile di vita al quale siamo stati abituati si trasforma così in munizioni con le quali i medici e gli infermieri continuano, ininterrottamente e in tutto il Paese, a curare le centinaia di malati che arrivano negli ospedali. È un atto doveroso che domani ci farà sentire parte di quell’esercito che ogni giorno sta combattendo il virus per salvaguardare la vita umana. L’ennesima guerra che l’uomo combatte ciclicamente per garantire la propria evoluzione su questo pianeta.
Tuttavia dobbiamo tenere presente come la pandemia che stiamo affrontando non sia la prima della nostra storia e secondo molti studi non dovrebbe essere né la peggiore, né tanto meno l’ultima. Prima del coronavirus, la peste nera del Trecento uccise 20 milioni di persone, quasi un terzo della popolazione europea. La peste del Seicento nell’Italia del Nord colpì un quarto dei cittadini, mentre la spagnola nel biennio 1918-1920 flagellò il mondo, uccidendo 50 milioni di donne e uomini fra i 15 e i 40 anni. L’ultima epidemia su scala globale fu l’influenza di Hong Kong che in tutto il mondo provocò un milione di morti e in Italia 20 mila caduti. Correva il 1968, anno che tutti noi abbiamo nella memoria per ben altri eventi politici. Quello che voglio dire è che l’umanità convive da sempre con le malattie e con la morte. Peraltro quelle malattie colpirono un mondo che non era lontanamente paragonabile al nostro, che al contrario possiede conoscenze mediche e capacità economiche in grado di attenuare le pesanti conseguenze sanitarie, sociali ed economiche derivanti da una pandemia su scala globale.
È allora perché abbiamo tutta questa paura? Le ragioni sono piuttosto semplici e sono radicate nella nostra essenza di essere umani. Noi abbiamo giustamente paura perché siamo i contemporanei e come tali viviamo sulla nostra pelle questa crisi globale. Questa pandemia è la nostra pandemia e sta cambiando profondamente il nostro modo di vivere. Tuttavia non deve cambiare il nostro rapporto con la vita e con la morte. Nel mondo si continua a morire in stragrande maggioranza per altre cause che non siano il Coronavirus e fortunatamente si continua a nascere. Ogni giorno. Siamo più di 7 miliardi e mezzo sul pianeta ed è per la nostra indole umana che non tolleriamo che nemmeno lo 0,1% di questi nostri simili possa morire per un virus. Magari tolleriamo che possano perdere la vita in guerra o in mezzo al mare, ma non per una causa che non riusciamo a controllare. Quello che non sopportiamo delle pandemie è l’imprevedibilità, la loro “democraticità” nel decidere di infettare allo stesso tempo il più povero e un re, un senza tetto o il primo ministro di un Paese. Le pandemie ci ricordano che non possiamo controllare tutto e ci mettono davanti ad una grande ovvietà, ovvero che in crisi non va l’umanità che combatte per la propria specie dalla notte dei tempi, bensì un sistema economico e sociale che abbiamo creduto fosse invincibile.
L’errore che abbiamo compiuto negli ultimi decenni è stato quello di pensare che il nostro modello di società fosse il migliore possibile, quasi che lo stato di natura fosse diventato sempiternamente il modello iper capitalistico, fondato sul libero mercato degli uomini e delle merci. Ci siamo talmente convinti di questa certezza da volerne persino smantellare le fondamenta, minando principi basilari quali la sanità pubblica per tutti e rinunciando al naturale istinto umano di equilibrare le disuguaglianze a favore di un eccesso di individualismo. Quando abbiamo rinunciato a tessere le maglie del tessuto sociale, acuendo gli squilibri, favorendo le diseguaglianze e consentendo ad un calciatore o ad un attore di guadagnare mille volte più di medico, di uno scienziato o di un ingegnere, abbiamo peccato d’arroganza. Quando nelle nostre società si è consentito di tagliare le risorse sulle spese sanitarie, sulle politiche sociali, sul costo del lavoro e sui servizi educativi per aumentare a dismisura gli introiti per il mercato finanziario e per l’intrattenimento generalista, le nostre società si sono ridotte a dei cristalli. Cristalli belli da guardare ma fragilissimi. Per queste ragioni la pandemia del 2020 può rappresentare un punto di svolta per tutti noi. Finita l’emergenza ritornare al mondo di prima come se nulla fosse sarebbe un errore imperdonabile. Perché in quel mondo pieno di storture, un medico, un infermiere o il commesso di un alimentare sotto casa non avevano il giusto valore. Dentro di noi lo sapevamo anche prima, tuttavia oggi lo vediamo ogni giorno e domani dimenticarlo renderebbe vane le tante perdite che stiamo subendo.