Oddio è lunedì #100 – ricordiamoci tutti chi è il vero nemico

Gran Bretagna e Francia sembrano viaggiare pericolosamente verso la crisi politica. Nel Regno Unito Theresa May è sempre più in difficoltà dopo la raffica di dimissioni di ministri del suo governo, contrari all’intesa raggiunta con l’Unione Europea sulla Brexit. Un negoziato durissimo, i cui risultati dovranno essere avallati con un voto sia dal Parlamento britannico che da quello Europeo. A lasciare il governo sono stati il Ministro per la Brexit Dominic Raab, quello per l’Irlanda del Nord Shailesh Vara e quello del lavoro Esther McVey. Contro la May il deputato Tory Jacob Rees-Mogg, capofila dei brexiteers più radicali, ha formalizzato la richiesta per una mozione di sfiducia in una lettera al comitato 1922, l’organismo di partito che sovrintende alla convocazione delle elezioni per la leadership. Per far scattare l’iter, comunque, serviranno 48 lettere sottoscritte da altrettanti deputati. In opposizione alla May e all’accordo “sgangerato sulla Brexit” si è schierato anche il leader laburista Jeremy Corbyn, che ha aggiunto come i deputati non “accetteranno una falsa scelta tra questo cattivo accordo e un no deal“.

Non va meglio in Francia dove il movimento dei gilet gialli ha sfidato apertamente il Presidente Emmanuel Macron. Quasi 300 mila persone hanno manifestato in tutto il Paese per il rialzo del prezzo del carburante e più in generale per l’aumento delle imposte e la perdita del potere d’acquisto dei salari. Una giornata drammatica che ha registrato 227 feriti e la morte di una donna di 63 anni investita da un’automobilista di 43, che mentre portava la figlia dal medico è stata bloccata dai manifestanti che hanno cominciato a sbattere le mani contro l’auto. A quel punto la donna, circondata dalla folla e presa dal panico, è ripartita investendo una signora che partecipava alla protesta. L’episodio accaduto in Savoia ha reso evidente la tensione e la violenza, seppur involontaria, di manifestazioni e proteste prive di una vera organizzazione e che spesso nascono spontaneamente, grazie al tam tam mediatico dei social network. A guidare la ribellione francese è Jacline Mouraud, donna e madre di tre figli, musicista e ipnosi-terapeuta che vive con mille euro al mese ed è divenuta la portavoce della protesta generica e non ideologica di chi non riesce a sostenere l’aumento dei costi del carburante. Per la cronaca in Francia il diesel è appena sopra 1,50 euro al litro e la benzina a 1,53, mentre nel nostro Paese la benzina verde è ad 1,64 euro al litro.

Anche in Italia cominciano ad emergere sempre più frequentemente proteste a carattere civico, spesso tese a sostenere interessi di rilievo locale e talvolta anche più nazionale. Ne sono un esempio il movimento del “si alla Tav“, che è riuscito a portare in piazza 40 mila persone o la manifestazione promossa da un gruppo di donne a Roma contro l’incuria della città. Sono iniziative che hanno un minimo comune denominatore che è quello di non essere promosse direttamente dai partiti. Negli ultimi mesi, fra le forze politiche, soltanto il Partito Democratico di Maurizio Martina è riuscito a promuovere la manifestazione di Piazza del Popolo a Roma.

La Sindaca Virgina Raggi, ad esempio, ha festeggiato sabato la propria assoluzione con pochi amici intimi sulla scalinata del Campidoglio, mettendo in piazza la propria debolezza politica e l’assoluta lontananza dai romani. Roma ha ben poco da festeggiare dopo essere retrocessa all’85esimo posto nella classifica della qualità della vita, perdendo 18 posizioni rispetto al 2017. Una situazione ben fotografata da Sabina Guzzanti, protagonista di uno sketch esilarante sulla Sindaca che se la prende con i romani, colpevoli di non riuscire a governare la città dopo due anni e mezzo. “D’altronde durante tutta la campagna elettorale sono stata molto chiara” spiega Guzzanti-Raggi “se vincerò le elezioni governeranno i romani. Sarei io che dovrei lamentarmi con i romani e dire cosa avete fatto in questi due anni e mezzo“? Sintesi perfetta di un movimento politico che cerca sempre di addossare agli altri la responsabilità dei propri fallimenti.

Sabato mattina sono voluto intervenire all’ultima assemblea nazionale del Partito Democratico, per non dover rimpiangere di non averlo fatto fra qualche anno. Stiamo andando verso il terzo congresso negli ultimi sei anni. Gli ultimi due vinti da Matteo Renzi con oltre il 65% dei consensi. Ogni volta chiediamo ai membri dell’assemblea nazionale di praticare l’eutanasia, come se ognuno dei delegati eletti alle primarie fosse esclusivamente l’emanazione di una leadership e non portatore delle idee delle tante persone che lo hanno sostenuto nel territorio di provenienza. Da più parti si è evocato in questi mesi il congresso per individuare una leadership, ma mi sembra che nessuno voglia davvero porsi il problema della qualità del gruppo dirigente nel suo complesso. Quando ho preso la parola in Assemblea, dopo appena due ore e mezza di discussione, le presenze in sala si erano già dimezzate, perché il vero dibattito si è trasferito ormai da troppo tempo sulle agenzie di stampa, privando le assemblee elettive della loro funzione. Questo è accaduto troppe volte in questi anni, sia nelle assemblee nazionali che in quelle regionali. Basti ricordare come quella del Lazio sia stata convocata una volta negli ultimi due anni. La dura verità è che non riusciamo a far funzionare come dovrebbero i gruppi dirigenti, perché abbiamo da troppo tempo delegato alle primarie la selezione della classe politica.

Sono molto preoccupato per questa deriva perché mi chiedo seriamente se la crisi democratica non tragga origine prima di tutto da questa costante delegittimazione delle centinaia di leadership locali che esprimiamo in tutto il Paese. La retorica ormai insopportabile del ripartire dai circoli dopo una sconfitta non si può più ascoltare, soprattutto quando si chiede di non far pagare nemmeno uno o due euro per chi partecipa alla primarie. Qualora passasse questa linea vorrei sapere che senso avrebbe chiedere ad un iscritto 15 o 30 euro, come accade a Roma, per aderire al Partto Democratico. Cosa rimane dell’appartenenza ad un partito se persino l’adesione diventa inutile a tal punto, da rendere più conveniente fare politica fuori dal Pd, nelle altre formazioni politiche di sinistra o nei comitati civici.

Noi non siamo il M5S o la destra, eppure le nostre primarie sembrano sempre di più inseguire uno schema populista che non ci appartiene. Ogni volta che siamo in difficoltà chiediamo al nostro popolo di venirci in soccorso e deleghiamo a loro le scelte. Quel popolo, tuttavia, è lo stesso che ha gremito soltanto qualche settimana fa Piazza del Popolo chiedendoci a gran voce “unità“. L’unità di un gruppo dirigente che non può saper solo delegare, ma deve necessariamente anche saper scegliere. Quelle migliaia di persone se avessero voluto altro avrebbero gridato primarie o il nome di uno dei tanti leader che ci sono nel Partito Democratico. Al contrario i cittadini ci chiedono sempre di più di decidere all’interno dei gruppi dirigenti sui nostri organigrammi e di parlare con una sola voce delle soluzioni ai problemi del Paese. Pretendono giustamente che il Partito Democratico sia in grado di interpretare un’opposizione ferma prima di tutto in Parlamento e poi nelle città in cui siamo all’opposizione come a Roma e Torino. Troppo spesso, invece, siamo molli sulle gambe con i nostri avversari politici ed eccessivamente agguerriti con i nostri amici e compagni. Non può più funzionale così, perché la comunicazione social ci rende nudi e divisi di fronte al Paese.

Ho concluso il mio intervento in assemblea citando il film “Hunger Games“. C’è un’immagine di quella trilogia che ho in testa da qualche tempo e che a mio avviso fotografa il momento politico che stanno attraversando i democratici italiani. Mi riferisco alla scena in cui la protagonista femminile, una leader politica naturale che guida una rivoluzione, sta per scoccare una freccia contro un suo alleato di cui improvvisamente lungo la strada ha perso fiducia, senza una concreta ragione. In quell’attimo topico lui la guarda negli occhi e con calma le dice: “ricordati chi è il vero nemico“, riferendosi al dittatore oppressore contro il quale entrambi combattono. L’ho evocata per lasciarla in dote ai candidati alla segreteria del Partito Democratico. Ricordiamoci tutti chi è il vero nemico. Lottiamo assieme contro chi vuole una società meno inclusiva, contro chi in una notte è passato dal gridare onestà al sostenere un condono, contro chi vuol far pagare meno tasse a chi possiede di più per ampliare le disuguaglianze, contro chi pensa che chiudere una frontiera o alzare un muro ci renda più sicuri, invece di catapultarci indietro ai primi del novecento. Ricordiamoci tutti chi è il vero nemico e utilizziamo il congresso non per dividerci, ma per ricostruire una comunità e discutere di come risolvere i problemi concreti del nostro Paese.

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