C’erano una volta Totò e un giovanissimo Ninetto Davoli, che vagavano per le periferie e le campagne che circondano Roma alle prese con un corvo parecchio irrequieto e pedulante. Per chi avesse dei dubbi, ci dice subito Pier Paolo Pasolini, il corvo è un intellettuale di sinistra dei tempi antecedenti la morte di Palmiro Togliatti. Il corvo probabilmente per il suo colore nero lucente ha sempre avuto una simbologia degli opposti. Principio delle cose da una parte, il buio del ventre materno e quelle della terra ove germina il seme, ma anche della fine dall’altra, il colore della notte e della morte. Nella pellicola del 1966 Uccellacci e uccellini, il nostro corvo racconta ai due protagonisti la storia di Ciccillo e Ninetto, due monaci francescani cui San Francesco ha ordinato d’evangelizzare i falchi e i passeri. Obiettivo quasi impossibile, che infatti i due falliscono poichè pur essendo riusciti a evangelizzare le due classi di uccelli, non sono riusciti a porre fine alla loro feroce rivalità. E quando i falchi incontrano i passeri accade l’inevitabile, con i primi che fanno razzia dei secondi.
Finito il racconto, Totò e Ninetto continuano il loro viaggio dalla Tuscania, alle campagne di Roma, fino all’aereoporto di Fiumicino, seguiti dal corvo che continua a parlar loro in tono intellettualistico e altisonante, mentre i due protagonisti incontrano sulla loro strada una carrellata di personaggi surreali eppure così simili al campionario degli italiani degli anni settanta. Si passa dal funerale di Palmiro Togliatti all’incontro con una prostituta, fino al grande finale, dove i due, esausti dalla chiacchiere del corvo ormai rimasto senza argomenti e stremati dalla fame, lo uccidono e se lo mangiano. Inutile dire come il film ebbe un successo enorme dalla critica, ottenendo la menzione speciale al festival di Cannes e venendo inserito nella lista dei 100 film italiani da salvare, mentre divenne il film con Totò che registrò il minor incasso al botteghino in assoluto. E non so quanti di noi oggi abbiano avuto l’onore di vedere la pellicola.
Ho scelto questo film per parlare oggi di Pasolini, perchè credo che in questa pellicola, che vi invito a guardare se non l’avete fatto e riguardare se vi è capitato in passato di vederla, c’è a mio avviso l’intera poetica pasoliniana. I luoghi sono parte essenziale del racconto. Il paesaggio muta intorno ai protagonisti, impegnati in un cammino di consapevolezza che deve portarli davanti alla storia. I protagonisti, che rappresentano il popolo semplice ed ingenuo, attraversano le campagne portuensi dirette ad un casolare di loro proprietà, per sfrattare una famiglia contadina morosa con l’affitto. Il loro compagno non richiesto, il corvo, è un’intellettuale inquieto incapace di comprendere la crisi ideologica del marxismo tradizionale. Di quelle idee che il comunismo reale ha messo in crisi in tutto il mondo, cancellando la speranza nella rivoluzione delle masse contadine e sfruttate. La metafora dell’eterna lotta fra falchi e passeri serve a Pasolini per farci capire l’importanza dei ruoli sociali che ognuno di noi, compresi i protagonisti del film, indossiamo ogni giorno della nostra vita.
Gli stessi Totò e Ninetto sono falchi quando giunti al loro casolare sfrattano la famiglia povera dei contadini e al tempo stesso sono passeri quando un creditore di Totò li fa assalire dai propri cani. Un povero minaccia un altro povero. E’ il modello borghese del capitalismo e del consumismo sfrenato, che ci fa credere di essere forti, soltanto perchè ci capita di tanto in tanto di incontrare chi è più debole di noi. Siamo incapaci di resistere al fascino di esercitare un potere coercitivo sul prossimo, poichè troppe volte lo abbiamo dovuto subire in prima persona, fin dalla scuola, nei rapporti subordinati con i nostri capi nel laovoro e nella sudditanza con la politica. Appena ne abbiamo la possibilità da passeri ci tramutiamo in falchi. In una società piramidale dove il pesce più grande mangia quello più piccolo, noi rischiamo di trovarci nel mezzo, a passare tutta la vita a guardarci le spalle, cercando di attaccare la preda più debole di noi per sopravvivere.
Anche la scelta di Totò è funzionale a rappresentare la critica alla società italiana. L’attore che il popolo ama per la sua “cattiveria” e il suo “teppismo”, viene rappresentato come un vecchio ed indifeso, incapace di prendere in giro, di raggirare, di fare boccacce dietro al malcapitato di turno. Una persona normale, che diventa quasi clownesca ed umanamente pietosa. Siamo alla fine degli anni sessanta e sembra quasi che vi stia descrivendo i caretteri dell’ex premier del consiglio Silvio Berlusconi. E non deve essere un caso se in termini di botteghino questo venga considerato il peggio film di Totò. C’è almeno da augurarsi, che la stessa sorte tocchi anche al Cavalieri e ai suoi eredi alle prossime elezioni politiche.
Fondamentale è la sequenza girata a Torre Righetti, un tempietto circolare di caccia del 1800, in cui il paesaggio lunare si apre improvvisamente sulla skyline dell’Eur, simbolo potente della modernità borghese e capitalista, che in città trova la sua massima espressione. Passati dall’ingenuità umana, alla consapevolezza della modernità, i due protagonisti sostituiscono alla fame intellettuale dei racconti del corvo, che fino a quel momento ha avuto il potere di nutrire il loro spirito, la fame reale, quella che attorciglia le budelle e li porta a mangiare l’ormai inutile animale. Il corvo stesso è consapevole del suo destino, quando afferma sconfitto, “quante ne avrei dette un giorno contro…. oggi forse non ne vale più la pena. E’ passata la mia ora”.
Nella società capitalista dei consumi e della televisione, della speculazione economica, dello strapotere delle banche e della finanza, della deturpazione dell’ambiente che ci circonda e della demolizione dell’etica, non c’è più posto per la cultura, il bello, la natura, i valori e le ideologie. serve la carne per nutrirsi e vivere alla giornata. Proprio alla fine del film Totò ritrova il guizzo della sua malandrina “cattiveria”, che l’ha reso celebre. Al figlio insegna di sacrificare il corvo e di mangiarselo.
E sull’ansa del Tevere, all’idrovare della Magliana con la centrale dell’Enel ben visibile nelle inquadrature, insieme al corvo muore profeticamente anche Pasolini, che conclude: “il compito più alto del poeta è morire per nutrire il popolo”. A qualcun altro afferma il corvo spetta il “compito di prendere in mano la mia bandiera e portarla avanti”. Quel qualcun altro, a mio avviso, siamo noi.
Lo dico con la convizione di chi è certo che la politica abbia responsabilità gravissime sulla degenerazioni etica, morale e sociale di questo Paese. Noi e nessun altro abbiamo il compito di fermare questo modello, che ha sacrificato i valori, le idee e l’ambiente in cui viviamo, per darci un corvo da mangiare la mattina, a pranzo e alla sera. Abbiamo rinunciato a tutto quello che è capace di nutrire il nostro spirito e la nostra anima, accontentandoci di riempire i nostri stomaci e le nostre vite di oggetti spesso inutili. Abbiamo rinunciato a stupirci per un cielo stellato, sostituendolo con i grattacieli spesso inutilmente illuminati anche di notte. Abbiamo barattato la bellezza di un paesaggio naturale, con la falsa promessa dell’edilizia pubblica in favore dei più deboli. Ritrovandoci invece con migliaia di appartamenti costosissimi sfitti, invenduti e che hanno deturpato il nostro patrimonio ambientale. Abbiamo smesso di pensare le città come perfezione ed opere d’arte, come ci ha mostrato Pasolini nel cortometraggio della Rai “La forma della città”, per trasformarle in agglomerati di lamiera, cemento e mattoni, senza corpo ed anima. Abbiamo smesso di ambire alla perfezione, alla pianificazione urbanistica, al giusto equilibrio fra le case in cui dormire e l’ambiente che ci circonda in cui vivere, per far guadagnare moltissimo a pochissimi.
Quelle poche volte in cui abbiamo tempo per fermarci a pensare a tutto quello che abbiamo consentito e ci domandiamo cosa possiamo fare, ci rispondiamo come il corvo di Pasolini. “Quante nei avrei dette contro”, magari con un post su facebook, con una parolaccia scritta su una scheda elettorale o votando il meno peggio. Questa risposta tuttavia è davvero troppo semplice. Niente cambia per inerzia. Ci vuole l’impegno di ognuno di noi. Anche nel saper scegliere chi deve rappresentarci. Siamone consapevoli. Nutriamo le nostre anime della poesia di intellettuali come Pasolini. Anche nelle difficoltà quotidiane della vita, non facciamo cadere nel vuoto le parole dei poeti, che a differenza di quelle dei politici di turno, restano li ferme ed incise, ad indicarci la strada da seguire.