Con l’avvio del congresso del Partito Democratico prende avvio una fase in cui provare a dare un contributo politico alla discussione. Comincio a farlo dicendo che sono assolutamente d’accordo con le parole del presidente dell’Anci Andrea De Caro e con quelle del Presidente della Lega delle autonomie Matteo Ricci. Il partito democratico a livello nazionale perde le elezioni da diciotto anni, ma siamo comunque riusciti a governare attraverso accordi con i partiti che i voti li hanno presi alle elezioni. Abbiamo governato, quindi, con i voti degli altri e troppo spesso senza avere la forza e la volontà politica di portare avanti le battaglie di cui siamo portatori. Al contrario a livello locale i Sindaci, i Presidenti di Regione e tanti amministratori locali capaci del Pd hanno vinto la stragrande maggioranza delle elezioni. Di conseguenza è venuto il momento che gli amministratori prendano la responsabilità di guidare il Pd nazionale. Per farlo, a mia avviso, è necessario tuttavia apportare alcuni correttivi di metodo, perché il metodo molto spesso è sostanza.
Sono diventato fermamente contrario alle primarie per la scelta del segretario del Partito Democratico. Dopo 15 anni mi sono convinto che questo strumento, immaginato inizialmente per ampliare la partecipazione politica dei cittadini non iscritti al partito, sia diventato un arnese retorico divisivo a carattere populista, incapace di generare una vera discussione sull’identità e le proposte per il Paese, ma utilissimo per cristallizzare al vertice del partito una classe politica sempre più celata dietro la leadership salvifica di turno, scelta fra gli applausi per poi essere sacrificata dopo poco tempo sull’altare del cambiare il segretario per non cambiare tutto il resto.
Complice del fallimento delle primarie per la scelta del segretario del Partito Democratico è stato anche un sistema elettorale pessimo, che garantisce l’elezione in Parlamento soltanto ai fedelissimi del segretario di turno, scollegando dal territorio deputati e senatori, sempre meno capaci di creare consenso e di costruire legami con l’elettorato e la base del partito. Un sistema elettorale che è l’opposto di quello con cui scegliamo gli amministratori locali delle città e delle Regioni.
Che le primarie siano diventate uno strumento sempre meno utile se ne sono accorti per primi i cittadini. Nel 2007 quando nacquero per eleggere Walter Veltroni votarono tre milioni e mezzo di persone. Il risultato era già certo perché rappresentava un’investitura verso un leader al quale si chiedeva di battere il centrodestra guidato da Berlusconi dopo la terribile esperienza dell’Unione. Per tutti quella giornata rappresentò la festa di un popolo che guardava con speranza alla nascita del Partito Democratico. Quando le vinse Matteo Renzi nel 2013 ai gazebo si presentarono tre milioni di persone. Alle ultime nel 2019 per eleggere Nicola Zingaretti meno di un milione e mezzo. Dati che sono andati di pari passo con la perdita di consenso del partito alle elezioni politiche successive.
Nonostante i dati siano incontrovertibili nessuno ha voluto mettere in discussione uno strumento che soltanto in Italia viene usato per scegliere il segretario di un partito. La ragione a mio avviso è piuttosto ovvia. Le primarie sarebbero uno strumento straordinario se fossero usate per scegliere le cariche elettive, come avviene in molti casi per i sindaci o i presidenti di Regione. Sarebbero davvero utili, ad esempio, per selezionare deputati e senatori, chiamando i cittadini a scegliere fra le persone più radicate nei territori da chi voler essere rappresentato in Parlamento. Con l’attuale sistema elettorale proporzionale, che tuttavia prevede anche una parte di parlamentari eletti nei collegi uninominali, si potrebbero fare già domani. Sia per i collegi uninominali che per i listini bloccati peraltro.
Sono convinto che se questo accadesse e di conseguenza il segretario del Partito Democratico non avesse più il potere di redigere le liste per il Parlamento, a nessuno interesserebbe più di eleggere questa carica con le primarie. A nessuno se non agli iscritti veri del Partito Democratico. Quelli che vivono la vita delle sezioni territoriali, che alzano ogni giorno una serranda ed organizzano iniziative, raccolte alimentari e progetti per l’emergenza freddo. Quelli che spesso non si sono mai candidati a nulla. Quelli che nei gazebo non vanno solo per votare, ma ci hanno passato giornate intere al freddo o sotto al sole. Quelli che devono sentirsi dire da 15 anni che è sempre migliore chi sta fuori dal Partito Democratico, salvo poi decidere di utilizzarlo quando si tratta di presentarsi ad un’elezione per avere più chance di essere eletti.
Ecco perché dopo 15 anni penso che il rilancio del Partito Democratico passi dall’abolizione delle primarie per la scelta della leadership. Basta assemblee nazionali e direzioni nelle quali è impossibile intervenire, parlare di politica, scegliere sui temi che interessano il Paese. Basta con assemblee e direzioni che votano all’unanimità per evitare di affrontare i nodi e le questioni più problematiche. Costruiamo invece strumenti di partecipazione diretta dei cittadini alla scelta dei parlamentari che devono rappresentarci. E soprattutto coinvolgiamo davvero chi si iscrive al partito nell’elaborazione delle proposte utili a risolvere i problemi del Paese.
Se davvero si volesse fare un congresso costituente, parola abusata che dovremo usare solo per chi la Costituzione l’ha scritta per davvero, bisognerebbe avere il coraggio di ripartire quantomeno da qui. Altrimenti sarà semplice profetizzare un ulteriore abbassamento della partecipazione dei cittadini alle prossime primarie. E la nuova leadership che verrà scelta avrà ancora meno forza delle precedenti.