Nella nostra vita siamo stati abituati a prenderci cura delle persone che amiamo con la nostra presenza. Ce lo hanno insegnato i nostri genitori e i nostri nonni, quando da piccoli stavamo male e si prendevano cura di noi. Per questo fatichiamo così tanto ad accettare l’idea dell’isolamento a casa. Il nostro inconscio profondo lo percepisce come un rifiuto verso gli altri, come se avessimo paura di ammalarci noi sani, che invece ci sentiamo forti e quasi invincibili. In questo caso, invece, l’isolamento è cura dell’altro. Mettere distanza fra noi e gli altri, rinunciando ad un bacio, ad un abbraccio o ad una stretta di mano, assume un significato di tutela verso le persone che ci circondano. Soprattutto verso quelle più deboli, che sono quelle più esposte al rischio. È molto più difficile farlo perché siamo abituati a comportarci nel modo opposto. Mettere una distanza equivale a non voler bene e dentro ci soffriamo. Capita anche a me che in questi giorni, pur stando bene e non avendo sintomi, devo rinunciare alle visite quotidiane alla mia nonnina, che per me è come fosse una seconda madre. Razionalmente sono consapevole che non andare a trovarla significhi amarla ed accudirla, eppure ogni volta che ci penso sento un malessere difficile da spiegare a parole. Sono convinto che ognuno di noi stia vivendo sensazioni simili e combatta nel proprio inconscio fra la razionalità e l’istinto, che nei momenti di grande difficoltà ci porta a stringerci attorno ai nostri cari e non ad allontanarli.
Quello che ci succede è normale. Siamo tutti figli di una società che ci vuole così, sempre scattanti, pronti a reagire a tutti gli stimoli, al limite dell’iperattività. Più della malattia e della morte sembrano farci paura le giornate vuote, la noia e il tempo perso “inutilmente”. Siamo stati abituati a “prevedere” gli scenari futuri e di conseguenza l’idea che ci sia qualcosa di imprevedibile, come questa malattia, ci annichilisce e ci spaventa. Tuttavia la paura è un sentimento importante, fondamentale per l’evoluzione della specie umana. Senza la paura non saremmo mai arrivati dove siamo. La paura è una delle emozioni più basilari dell’esistenza umana ed è anche quella che ha una grande utilità per ognuno di noi, perché è in grado di metterci in guardia dai pericoli che incontriamo. Nelle paure abbiamo la sensazione che qualcosa minacci la nostra esistenza e la nostra integrità biologica o quella delle persone a noi più vicine. La paura è in grado di proiettarci nel futuro, immaginando che qualcosa di brutto possa succedere a noi e agli altri, spingendoci a mettere in atto comportamenti e condotte in grado di allontanare l’oggetto che ci spaventa o di fuggire da questo per evitare il danno che potremmo averne. Di conseguenza la paura è un’arma potente, che dobbiamo essere in grado di saper usare come strumento motivazionale capace di farci cambiare le nostre abitudini.
Per questa ragione non voglio giudicare le persone che a Milano si sono precipitate a prendere un treno per tornare a casa, poco prima dell’approvazione del decreto del Governo di sabato notte, ne tantomeno i tanti che hanno affollato in questi giorni locali o pub delle nostre città. Considero quei comportamenti delle risposte d’istinto ad una paura inattesa, una sorta di esorcizzazione dell’angoscia, in assenza di un codice di azione univoco da adottare. La verità è che bisogna guardare in faccia la realtà con grande razionalità e amore verso l’umanità che ci circonda. Restare a casa per un tempo ancora non determinato vuol dire avere fiducia nella scienza, che sta studiando un vaccino per una malattia ancora poco conosciuta. Restare a casa significa anche avere fiducia nel lavoro delle Istituzioni, che sono consapevoli che la sfida più importante sarà quella di mantenere elevati i livelli di assistenza ai malati da parte del sistema sanitario pubblico e privato. Restare a casa volontariamente vuol dire rispettare le leggi, che in democrazia si impongono per decreti e ordinanze senza l’uso coercitivo dell’esercito, come avvenuto invece in Cina. Decidere di restare a casa chiama soprattutto in causa la coscienza e il senso civico di ognuno di noi, che se deciderà di modificare i propri comportamenti per queste settimane, lo avrà fatto perché ritiene che ogni vita è importante, anche quella di un anziano già ricoverato in ospedale. Perché quell’anziano “lontano” non può rappresentare semplicemente un numero per le statistiche, ma è anche il nonno, il padre e il marito di qualcuno che potremmo aver incontrato nella nostra vita. Magari persino il nostro. Evitare di andare in giro per questioni non indispensabili, sopratutto per chi di noi non presenta sintomi e si sente bene, ma potrebbe essere portatore sano a sua insaputa, significa preservare la salute di chi rischia di stare male e di non sopravvivere alla battaglia con il virus.
Quello che stiamo vivendo non è il tempo di infrangere le regole, ma di rispettarle. La responsabilità individuale non è mai stata così legata al destino collettivo dell’umanità. Evitare di contribuire al propagarsi del contagio non significa cedere al panico o alla psicosi, ma al contrario vuol dire avere assunto consapevolezza del nemico che stiamo combattendo in tutto il mondo. Un nemico silenzioso e invisible che si potrà sconfiggere se ci comporteremo da singole parti di un organismo complesso. Viviamo nel mondo più collegato di sempre. Abbiamo smartphone, tablet, rete internet illimitata e possibilità di comunicare in ogni parte del mondo. Non corriamo il rischio di rimanere soli, anche se resteremo in casa qualche settimana con le nostre famiglie. Tuttavia se dovessimo vincere tutti insieme questa battaglia, per il futuro potremmo persino decidere di rivoluzionare completamente i nostri stili e modelli di vita, poiché è proprio dal tentativo di superare le proprie paure che l’umanità è sempre progredita.