La politica del “Bar dello Sport”

bar dello sportMatteo Renzi ha ragione. “E’ arrivato il momento di far vedere che la politica non e’ solo discussione o diventa il bar dello Sport” aveva detto il segretario del Pd alla direzione nazionale. Nel nostro Paese, in effetti, il chiacchiericcio costante del bar dello sport è da sempre molto in voga. Questa mattina nei bar della capitale, ad esempio, è tutto un discutere sulla partita di coppa Italia tra la Roma di Garcia e la Juventus di Conte. Milioni di allenatori e presidenti, che parlano, interpretano e spiegano le mosse dei protagonisti dentro e fuori dal campo. Notoriamente il nostro è un popolo di fanta allenatori, ma negli ultimi anni, complice lo sviluppo su larga scala dei social network e degli smartphone, è diventato anche un popolo di intellettuali della rete e di politici da tastiera. Tutti a parlare, spiegare ed interpretare le mosse dei vari Renzi, Berlusconi, Fassina e Cuperlo. Tutti noi ovviamente, nessuno escluso. Il risultato è una babele di commenti, stati e cinguettii, che non aiutano a comprendere i contenuti del dibattito e spesso servono ad intorbidire le acque e rendere di difficile comprensione anche le questioni più semplici.

La vicenda del Partito Democratico di questi ultimi anni si è sviluppata seguendo questo canovaccio. Spesso si è preferito raccontare le storie personali dei singoli protagonisti, quasi si guardasse una soap opera alla Beautiful, piuttosto che spiegare le idee ed i progetti per il Paese. La leadership si è sostituita alle idee. Donne e uomini impegnati in politica hanno perso progressivamente la propria autonomia ed il rapporto con i cittadini, preferendo schierarsi con il leader carismatico di turno, alla ricerca di una posizione di potere personale. Dalla discussione sui contenuti e sulla capacità di decidere ed incidere sulle sorti del Paese, si è arrivati ai commenti e alle discussioni da bar dello sport, dove ci si divide a priori fra romanisti e juventini e dove vale praticamente tutto e nulla deve essere comprovato da fatti e risultati oggettivi.

Per questa ragione la scelta dei metodi e dei toni utilizzati da Matteo Renzi, per quanto appaiano lontani anni luce dal vecchio modello di partito di centrosinistra del nostro Paese, rappresentano ciò di cui ha bisogno la politica italiana. Bisogna uscire dallo stallo della Seconda Repubblica. Matteo Renzi è consapevole di come sia necessario decidere rapidamente. Primo perchè ne ha bisogno l’Italia e secondo perchè l’orizzonte di un uomo politico non può essere infinito, ma dovrebbe durare al massimo lo spazio di un decennio, come avviene nelle altre democrazie occidentali. Le vite politiche infinite di certe figure della politica nostrana di destra e di sinistra sono incomprensibili per un francese o un americano e dovrebbero provocarci imbarazzo ed indignazione. Nelle democrazie occidentali dopo dieci anni di leadership nazionale, i politici concludono il proprio impegno politico e si occupano di altro. Succede indipendentemente dai risultati politici che hanno raggiunto. I cicli si aprono e si chiudono. L’alternanza politica è il frutto di questi cicli, che pur basandosi sulla leadership personale di uomini e donne, rimangono ancorati alle idee e ai valori dei partiti storici che animano la vita politica.

Per questo motivo, più di ogni altro, la sfida politica di Renzi sulle riforme rappresenta oggi l’ultimo tentativo per la politica italiana di sopravvivere al vento del populismo e dell’astensionismo. Chi critica questo tentativo per partito preso, accusando il segretario di incoerenza o peggio ancora di intelligence con il nemico, mentre è in carica un governo di larghe intese resosi necessario proprio a causa dell’inadeguatezza del sistema elettorale, rischia di fare un esercizio da bar dello sport. Rischia cioè di anteporre le proprie legittime opinioni personali all’interesse del Paese. Uno di quegli errori che hanno portato il Partito Democratico degli ultimi anni a parlare più di se stesso che dei problemi del Paese.

Quei parlamentari del Pd che nei prossimi giorni si dovessero assumere la responsabilità di cambiare con il proprio voto in Parlamento quanto deciso dalla direzione nazionale del partito, avranno almeno il merito di contribuire finalmente a fare chiarezza su chi fossero i famosi 101 giustizieri di Romano Prodi. Quelli che decisero che la loro opinione da bar dello sport fosse più importante di quella espressa dall’allora segretario del partito Pierluigi Bersani. Se quella storia vergognosa dovesse ripetersi, davvero il Pd rischierebbe di finire in farsa.

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