La follia viene ufficialmente identificata come una mancanza di adattamento che il “malato” mostra nei confronti dell’ambiente. Bisogna ovviamene tenere sempre presente che la definizione stessa della follia viene costantemente influenzata dal momento storico, dalla cultura e dalle convenzioni sociali, quindi è possibile considerare folle qualcosa o qualcuno che prima era normale, e viceversa. Lo sapeva molto bene Erasmo da Rotterdam che nel suo famoso saggio la utilizzava per criticare alcune pratiche corrotte della Chiesa Cattolica in nome della difesa dei veri ideali Cristiani. Ne era consapevole Galileo Galilei, folle nel mettere in crisi il paradigma dominante tanto da dover subire un processo dall’Inquisizione per le proprie opinioni, peraltro dimostrate matematicamente. E ne dissertava anche il grande scrittore Edgar Allan Poe che si difendeva dall’accusa di esser folle, rilanciando “non è ancora chiaro se la follia sia o meno il grado più elevato dell’intelletto, se la maggior parte di cio che è glorioso, se tutto cio che è profondo non nasca da una malattia della mente, da stati di esaltazione della mente a spese dell’intelletto in generale”. Quasi che la mancanza di adattamento ad un modello sociale costituito ed ormai seguito dalla massa, fosse automaticamente un sintomo di malattia e devianza. Per restare ai giorni nostri doveva saperne qualcosa anche il moderno trasformatore della comunicazione globale Steve Jobs, la cui prematura scomparsa ha già reso celebre, come uno slogan, la sua frase: “Stay hungry, Stay foolish”, rivolta ai giovani neolaureati di Stedford che tradotta più o meno suona come “Siate affamati, siate folli” o anche “ingenui” come preferiscono i più puristi della lingua.
Perché c’è bisogno di un elogio della follia? Perché dobbiamo essere in grado di distinguere quella autentica, da quella generata dall’ignoranza e dalla disperazione. Perché dopo i fatti violenti di Roma c’é la necessità di interrogarsi seriamente e di dibattere con altrettanta onesta intellettuale, su come sia realmente possibile rovesciare l’attuale sistema capitalistico planetario che ha dimostrato con la propria applicazione quotidiana di essere sbagliato, iniquo, ingiusto ed incapace di garantire la certezza di un futuro per tutte le generazioni, passate, presenti e future, legate a doppio filo da un unico destino di declino ed impoverimento collettivo, a vantaggio di pochissimi che continuano ad accumulare ricchezze.
In questa breve riflessione non pretendo di poter essere esaustivo. La necessità é quella di portare degli esempi concreti di cosa, a mio avviso, voglia dire essere “foolish”, cioè “folli” nel senso costruttivo del termine. Quella follia in grado di produrre cambiamenti concreti nel sistema di pensiero e di azioni mondiali che plasmano quotidianamente le nostre vite, suggerendoci modelli di comportamento, stili di vita, sogni ed ambizioni. In questi giorni mi é capitato di leggere, fra le tante riflessioni, il breve articolo “Una Rivoluzione lenta” di un giornalista romano che di nome fa Enrico Pazzi. La battuta che spesso ho sentito fare sul suo lavoro é “Nomen Omen”, troppo celebre e abusata locuzione latina che tradotta vuol dire “Il presagio é nel nome” o “il destino nel nome”. L’accusa é che Enrico Pazzi sia, proprio come suggerisce il suo cognome, un “pazzo”. Il discredito viene gettato abilmente dall’ambiente politico e si infiltra nei vari ingranaggi che con la politica si confrontano ogni giorno: altri giornalisti, cittadini comuni con ambizioni personali legittime, amministratori locali e tutto quanto faccia parte di un modello condiviso di linguaggi e modi di fare, ormai collaudati e consolidati. Insomma un sistema in cui vige il paradigma dominante per il quale “bisogna fare qualcosa soltanto se questa ha un immediato vantaggio personale”. Quindi tutto quello che viene fatto e che non trova una spiegazione plausibile assimilabile a questa motivazione di fondo, viene subito bollato come una “pazzia”, una “follia” appunto.
Cosa fa questo Enrico Pazzi, giornalista a tempo libero che per vivere, invece, é costretto a lavorare tutti i giorni come molti di noi, magari senza un lavoro fisso, con contratti a tempo determinato e senza poter curare le proprie passioni? Ha deciso di fare il giornalista senza compenso, per passione. Ha deciso di provare a raccontare la verità. Davvero un folle! Ha deciso di intervistare i politici senza mandar loro prima le domande e senza tagliare le risposte imbarazzanti per coltivare qualche rapporto. Ha deciso di indagare e sollevare gli scandali che ha incontrato sulla propria strada, anche se questi riguardavano persone che avrebbero potuto un giorno essergli utili. Ha deciso di dare visibilità alle battaglie di cittadini senza chiedere nulla in cambio. Ha scelto di non fare giornalismo per guadagnare, decidendo cosa mettere su un giornale in base ad un tariffario o alla convenienza del momento, ma seguendo l’interesse generale. Rinunciando ad esercitare un “potere” personale, quello cioè di orientare l’opinione dei cittadini, a vantaggio di un ideale più grande. Il racconto quotidiano della verità.
Questo lavoro lo ha portato in poco meno di due anni ad essere conosciuto a Roma in gran parte degli ambienti politici e giornalistici. Gli ha consentito di portare avanti le battaglie dei cittadini che dal suo “piccolo” portale www.roma2013.org sono arrivate ad essere richiamate dai quotidiani nazionali quali Repubblica, il Corriere della Sera e il Messaggero. Fino a programmi televisivi nazionali come Report. Grazie alle sue inchieste sui rimborsi della politica, in meno di un anno, il Governo nazionale ha varato norme che hanno ridotto ed annullato molti privilegi che erano fonte di sperpero di denaro pubblico. Non ha avuto paura ad affrontare da giornalista e senza alcuna copertura politica il sistema gelatinoso del Salaria Sport Village. E se oggi la via Salaria é al centro del dibattito politico per i più svariati argomenti, dalla prostituzione ai nomadi, fino ai miasmi dello stabilimento Ama, lo si deve al lavoro video e scritto che ha pubblicato e che ha risvegliato molte coscienze ormai sopite. Questo lavoro volontario gli ha consentito di avere quella giusta popolarità che in un Paese normale, democratico e dove conti il merito, gli avrebbe consentito il salto di qualità. Credetemi in Inghilterra, negli Stati Uniti e in Francia succede ogni giorno. Soltanto in Italia ci accontentiamo di avere un tesserino da pubblicista, peraltro a pagamento e tassato ogni anno, per stare dietro ad un computer ad inserire notizie alla stessa paga di un dipendente di McDonald’s.
Invece il sistema si é messo lentamente in moto, oliato da servili comportamenti dell’umana ordinarietà. Pian piano politici locali, “giornalisti da poltrona”, imprenditori guidati dal cieco egoismo e qualche cittadino molto attivo nel propagandare più se stesso che le battaglie della collettività, hanno tentato di fare intorno ad Enrico Pazzi terra bruciata. Una tattica che funziona sempre. “Quello é pazzo, lascialo stare”. Lo hanno chiesto anche a me, per il ruolo che ricopro e per la conoscenza che in questi anni ho avuto con Enrico Pazzi, cosí come con tanti altri giornalisti che stimo ed apprezzo per il lavoro che fanno, su tutti Corrado Zunino e Paolo Mondani che rappresentano esempi di come si possa ancora fare vero giornalismo in questo Paese.
Per qualche settimana sono stato in dubbio. Davvero. Ho pensato alle ripercussioni che avrebbe potuto avere sul mio impegno politico, il sostegno ad un giornalista cosí scomodo che nulla avrebbe potuto darmi se non la sua amicizia, nata dall’incontro di due intellettualità forse simili. Ed infine ho deciso di essere “foolish”. Di fregarmene delle conseguenze che ci sono state e che continueranno ad esserci. Delle inimicizie e degli attacchi politici e personali che la stima nei confronti di Enrico Pazzi mi generano ogni giorno. Ho fatto una scelta e anche se nel nostro piccolo, la scelta é stata quella di sovvertire il paradigma dominante nel nostro Paese, nella nostra città, nel nostro municipio.
Chi dice la verità, chi fa battaglie per la collettività non deve essere isolato. Perché questo é quello che vuole il modello capitalistico che domina le nostre esistenze e che a parole molti di noi vorrebbero combattere. Ognuno deve pensare a se stesso e al proprio tornaconto. Invertire questo postulato é la vera rivoluzione. Quella che non si fa in piazza, bensì prima di tutto nelle nostre coscienze e poi nei comportamenti concreti che dobbiamo mettere in atto con il prossimo.
La mia battaglia per cambiare questo sistema che contesto, personalmente, la porto avanti ogni giorno nella mia attività politica e nel mio modo di comportarmi con le persone. Per questo oggi per me Enrico Pazzi non é più solo un giornalista che fa lo stesso nel suo campo, bensì un amico di rivoluzione. Una rivoluzione “ingenua”, folle forse, ma sicuramente autentica.