Il governo decide sulla candidatura per i Giochi a Roma nel 2020. Che costerebbero almeno 10 miliardi. Ma per le gare del 2006 e 2009 sono stati dilapidati fondi pubblici mentre la Cricca faceva affari. La videoinchiesta del giornalista Fabrizio Gatti in edicola domani sull’Espresso e visibile sul portale del settimanale (leggi qui l’inchiesta). Vi invito a guardare anche i video sugli impianti mai finiti per i Mondiali di Nuoto 2009 di Valco San Paolo e Tor Vergata e la mia intervista video sul Salaria Sport Village (clicca qui per vederla). Di seguito pubblico l’intero articolo dell’inchiesta di Fabrizio Gatti.
Il governo decide sulla candidatura per i Giochi a Roma nel 2020. Che costerebbero almeno 10 miliardi. Ma per le gare del 2006 e 2009 sono stati dilapidati fondi pubblici mentre la Cricca faceva affari
La macchina dei grandi eventi è di nuovo in azione. Come negli anni ruggenti di Guido Bertolaso e Angelo Balducci, prima della grande crisi. Non c’è solo l’austerity a minacciare le casse dello Stato. Adesso spingono il presidente del Consiglio a firmare un impegno di spesa colossale che andrà a gravare su tutti gli italiani: l’organizzazione delle Olimpiadi a Roma nel 2020. Al premier Mario Monti chiedono di sottoscrivere la dichiarazione di sostegno del governo alla candidatura della Capitale.
La decisione è in calendario per martedì 14 febbraio e il 15 scade il termine per presentare la domanda al Comitato olimpico. Ma se va male questa volta, la promessa è di riprovarci con i Giochi del 2024. Secondo il preventivo, comunque mai rispettato fin dallo scandalo degli stadi d’oro di “Italia ’90”, sono 8 miliardi e 200 milioni che lo Stato deve garantire. Sommati al miliardo e 600 milioni da stanziare per l’ampliamento dell’aeroporto di Fiumicino, fanno quasi 10 miliardi. Un’occasione per rilanciare l’immagine del Paese, secondo i sostenitori. Certo, ma a patto di non ripetere gli sprechi del passato.
Già soltanto a parlarne si paga. Il comitato Roma2020 istituito per l’occasione ha calcolato un acconto iniziale di 42 milioni. Soldi pubblici e privati. Un terzo è destinato alla promozione della “domanda per candidarsi”, la fase uno. I due terzi verranno invece spesi per sostenere la candidatura vera e propria, la fase due. Inutile dire che la maggior parte di questi costi è a carico pubblico: “Il budget”, è scritto nella proposta di candidatura, “sarà finanziato… da parte del Comune di Roma, della Regione, della Provincia e di altri soggetti pubblici”. Insomma, soltanto per predisporre il virgolettato riportato qui sopra, appaltare i sondaggi, girare gli spot pubblicitari, aprire il sito Internet e così via, se ne andrà qualche decina di milioni.
Quanti insegnanti, quanti medici, quanti ingegneri, quanti ricercatori si possono formare o assumere con 42 milioni? Pensare di bruciare una cifra così forte soltanto per la promozione e senza la certezza del risultato è un gioco d’azzardo. Ovviamente l’azzardo è a carico dei cittadini, visto che i giocatori di questa partita non rischiano nulla.
Non ci rimette niente Gianni Alemanno, sindaco della Capitale e vicepresidente del comitato promotore. Poco importa che il suo Comune abbia appena dimostrato di non avere nemmeno i soldi per comprare sale e pale e affrontare la grande nevicata della scorsa settimana. E non ci rimette nulla la solita lobby trasversale dei grandi eventi. La stessa di sempre.
Al centro nel senso dello schieramento politico, come primo firmatario della mozione che affida al sindaco il mandato di ospitare i Giochi, il senatore Francesco Rutelli che, a proposito di controllo dei conti, nel suo partito non sta brillando per efficienza. A destra il numero due nel governo di Silvio Berlusconi, l’ex sottosegretario Gianni Letta, presidente onorario di Roma2020. E tra gli iscritti al comitato promotore, Giovanni Malagò, presidente per l’organizzazione dei Mondiali di nuoto nel 2009 a Roma, l’ultimo evento che ha disseminato colate di cemento in nome dello sport.
“L’Espresso” è tornato sui luoghi simbolo.
Dalle Olimpiadi invernali di Torino 2006. Agli impianti di Roma 2009. Il risultato è una rassegna di monumenti all’italico modo di fare. Milioni di metri cubi di cemento armato. Tonnellate di ferro. Campagne e boschi deturpati per sempre. Capitali trasformati in opere abbandonate. Come i trampolini per il salto con gli sci a Pra Gelato, in Piemonte. Avrebbero potuto costruire una struttura provvisoria. Hanno scelto quella fissa: disboscamento di mezza montagna, oltre 34 milioni di costo, un milione all’anno di spese di manutenzione e trampolino inutilizzato dal 2009.
Stessa sorte per lo stadio del freestyle a Sauze d’Oulx: 8 milioni bruciati, 15 giorni di apertura, 700 mila euro da spendere ora per la demolizione. Oppure la pista di bob a Cesana, chiusa con le sue 40 tonnellate di ammoniaca nell’impianto refrigerante, l’anello del biathlon a San Sicario.
Quelli che Alemanno, Rutelli e Gianni Letta vogliono far svolgere a Roma sono i Giochi estivi. Dal 24 luglio al 9 agosto 2020. Una follia anche per uno che le Olimpiadi le ha vissute dal di dentro. Pietro Mennea, 60 anni, campione di atletica, medaglia d’oro nei 200 metri a Mosca 1980 e molto altro, il 26 gennaio consegna queste parole schiette alla cronaca romana del “Corriere della sera”: “Oggi non è pensabile chiedere l’organizzazione dei Giochi del 2020. Siamo un Paese senza sangue, devastato da una crisi economica spaventosa: come si può proporre, oggi, una cosa del genere?”. E ancora: “Come si fa a parlare di Giochi a costo zero? Come si fa a sostenere una balla così colossale? Non esistono Giochi a costo zero e non lo dico io, ma lo dice la storia delle Olimpiadi moderne, lo dicono i dati, i numeri, le cifre… Il gigantismo è la malattia che affligge da decenni i Giochi olimpici e ha messo in ginocchio paesi come la Grecia, dopo Atene 2004”. E non solo la Grecia.
Il comitato promotore di Roma2020 non se l’aspettava. Mennea ha studiato la questione. Ha da poco pubblicato il libro “I costi delle Olimpiadi” (Delta 3 edizioni). Basterebbe infatti riflettere con buon senso. Per sospettare di una formula già vista nei lavori pubblici. Guadagno privato con investimento pubblico. Il solito motto. Per i soliti nomi. Sentite qua. A pagina 25 la proposta di candidatura di Roma2020 prevede la costruzione del bacino per le gare di canottaggio, canoa e slalom vicino al Tevere a Settebagni, periferia nord di Roma. Un grande impianto per 20 mila spettatori. Lavori da eseguire tra il 2014 e il 2016. Prezzo: 130 milioni di preventivo. Praticamente ogni posto in tribuna ci costerebbe la bellezza di 6.500 euro.
A Settebagni un famoso centro sportivo offre già corsi di canottaggio e tante altre cose. E’ il Salaria sport village. Ve lo ricordate? Sì, proprio quello dei massaggi alla schiena dell’ex capo della Protezione civile, Guido Bertolaso. Il club esclusivo di proprietà di Diego Anemone, 41 anni, aperto con il figlio di Angelo Balducci, l’ex maggiordomo del papa, alto dirigente del ministero delle Infrastrutture e dei Beni culturali la cui squadra è costata alle casse dello Stato centinaia di milioni in opere pubbliche dal dubbio utilizzo. Dal G8 mancato sull’isola della Maddalena ai Mondiali di nuoto a Roma, appunto. Nel maggio 2010, pochi giorni dopo la scarcerazione, Anemone si intesta il cento per cento delle quote della società proprietaria del centro sportivo: otto milioni 750 mila euro di capitale sociale, prima affidato a due fiduciarie. Se un impianto così famoso avesse accanto un bacino di gara da 20 mila posti, godrebbe di una ricca opportunità da vendere ai propri clienti. Ma c’è un’altra necessità, più nascosta. Più importante.
Poco più a valle del Salaria sport village, il Tevere è sbarrato dalle chiuse di Castel Giubileo. Durante le piene, è la barriera che protegge il centro di Roma. E l’acqua trattenuta va ad allagare le campagne a Settebagni. Una valvola naturale. Ma proprio su uno di quei terreni agricoli di sfogo, Diego Anemone ha costruito la nuova grande piscina coperta, con foresteria-hotel, centro massaggi e parcheggio. E’ uno dei capitoli dell’inchiesta del 2010 sulle scorciatoie dei Mondiali di nuoto e sulla cricca dei lavori pubblici. Quando il Tevere si riempie e Castel Giubileo alza le paratie per salvare Roma, il gioiellino di Anemone rischia di finire sotto la melma. Certo, perché lì non dovrebbe esserci nessuna costruzione. Quello che esiste è totalmente abusivo. Per questo la Procura ha messo sotto sequestro il cantiere. E voi pensate che l’imprenditore amico di Bertolaso e Balducci abbia rispettato l’ordine di stop ai lavori? Eccome no.
Sentite Riccardo Corbucci, giovane vicepresidente per il Pd nel consiglio del IV municipio di Roma. E’ lui, con un gruppo di ragazzi di Settebagni, a denunciare per primo le irregolarità nel Salaria sport village: “Quando il Salaria è stato messo sotto sequestro, il cantiere è andato avanti. Sempre. Fino al compimento delle grandi opere murarie. E addirittura di fronte a un ulteriore esposto fatto dai comitati di quartiere e da Italia Nostra, hanno continuato finendo anche le opere del parcheggio”. Corbucci e i ragazzi del comitato non si rassegnano a una violazione così arrogante delle norme: “Ora il Salaria sport village è pronto a entrare in funzione anche nella sua parte nuova”, racconta e lo si vede benissimo: “Tant’è che ogni estate il Salaria fa richiesta, ottenendola peraltro, all’autorità giudiziaria per poter utilizzare per circa quaranta giorni la struttura con progetti di carattere sociale. Progetti che non hanno mai avuto fino a questo momento una controprova nei fatti. Nel senso che non abbiamo mai avuto documentazione, nonostante io come consigliere municipale l’abbia richiesta più volte. Sia al quarto municipio, sia al sindaco di Roma e agli assessori competenti. Questo a dimostrazione che il Salaria è perfettamente funzionante. Nonostante il cantiere sia stato messo sotto sequestro quando ancora non c’era addirittura il tetto”.
Proprio a Settebagni il comitato Roma2020 conta di far spendere allo Stato 130 milioni. Chissà che tra un bacino di gara e il rifacimento degli argini, più alti perché il pubblico veda meglio, non ci scappi qualche barriera che, casualmente, protegga dalle piene le opere abusive. “Se così fosse”, spiega Corbucci, “verrebbe meno una delle motivazioni del sequestro: cioè il fatto che il nuovo impianto del Salaria sia stato costruito su un’area pericolosa”. Lo stesso vale per i terreni alluvionali che, dopo le Olimpiadi, potrebbero finalmente diventare edificabili. Naturalmente sono semplici coincidenze. Da queste parti tutto avviene all’insaputa di protagonisti e beneficiari. Come per la casa con vista sul Colosseo pagata da Anemone all’ex ministro Claudio Scajola.
Si prende il grande raccordo anulare. E nel traffico lento del pomeriggio si arriva a Tor Vergata. Nella tabella dei “42 impianti di gara di cui 33 esistenti” pubblicata dal comitato Roma2020, quelli destinati alla pallacanestro e alla pallavolo sono segnalati in blu sotto la colonna “esistente”. E’ la Città dello sport progettata dal famoso architetto Santiago Calatrava. La vela di acciaio disegnata dall’archistar di Valencia appare da lontano nel cielo nuvoloso. Delle due previste, soltanto una è stata costruita. Sotto la vela, lo scheletro di cemento armato è la sola struttura finita. Basta entrare nel cantiere per rendersi conto in che condizioni sia l’impianto “esistente”. Piove acqua dalle crepe di assestamento e dai soffitti. Chilometri di tondini speciali per le armature si arrugginiscono nelle pozzanghere. Lo spazio non è ancora l’ideale per giocare a basket o a volley. A destra, una grande spianata di fango su cui si affacceranno le tribune. A sinistra, sotto l’unica vela già innalzata, le due buche dentro cui si sarebbero dovuti lanciare i tuffatori. Doveva diventare lo stadio del nuoto in tempo per i Mondiali. Il fatto che nel 2009 le gare le abbiano fatte lo stesso al Foro Italico dimostra come queste opere fossero completamente inutili. Dobbiamo ringraziare il presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, che le ha deliberate il 29 dicembre 2005 con procedura d’urgenza e affidate al sempre presente Angelo Balducci.
Il cartello di cantiere, ormai scolorito, indica l’importo dei lavori: 136 milioni 320 mila euro. E’ solo il costo iniziale. Perché queste tre buche di milioni ne hanno già ingoiati 256. A beneficio, stando sempre al cartello, di un consorzio di imprese diretto dalla Vianini spa del gruppo Caltagirone. Una barzelletta anche la fine dei lavori. Data di consegna: 27 marzo 2007. Data di ultimazione: 30 giugno 2011. Infatti, di solito le opere prima si consegnano. Poi si completano. Ovviamente fino a oggi non sono state né consegnate né completate. Ma continuiamo a pagare i custodi. E perfino i progettisti e i tecnici dell'”Ufficio del commissario delegato per lo svolgimento dei Mondiali di nuoto”. Chiusi nelle baracche di cantiere ai piedi dalla vela di Calatrava, tutti i giorni dal 2008 progettisti e tecnici si confrontano sulla “costruzione della viabilità perimetrale e delle reti di fognatura a servizio della Città dello sport di Tor Vergata”, come spiega un altro cartello davanti alle loro auto parcheggiate. Nonostante la procedura d’urgenza e i 12 milioni 800 mila euro già spesi per la viabilità, i risultati sono piuttosto lenti a manifestarsi. Anche lo svincolo autostradale è rimasto a metà. Le imprese se ne sono andate senza nemmeno chiudere a chiave l’ufficio di cantiere. Documenti e mappe per terra. Tra scarpe abbandonate, una scrivania e un letto sfatto.
Ecco, con la scusa delle Olimpiadi vogliono far dimenticare lo scempio della Città dello sport. La lobby dei grandi eventi prevede di spendere qui 500 milioni per costruire la seconda vela e completare lo stadio. Così è scritto nel documento di previsione del comitato Roma2020. Portando il costo dell’impianto di Tor Vergata da 136 a 700 milioni. Forse qualcuno ha sottostimato i prezzi prima. Forse li stanno sbagliando ora. Ma come può un’opera sopravvalutarsi del 400 per cento in cinque anni?
L’ultimo colpo alla decenza, in un Paese dove migliaia di scuole non hanno capacità antisismica e i vecchi soffitti crollano sugli studenti, è in via della Vasca Navale. Siamo sempre a Roma, zona dimessa fra il centro e l’Eur. Alla fine della strada, tra il deposito dei mezzi della nettezza urbana e il canile municipale, l’Ufficio del commissario delegato per i mondiali di nuoto ha appaltato la costruzione del polo natatorio di Valco San Paolo. Due piscine coperte e una scoperta. Una tribuna. Una palestra. Spogliatoi per un esercito. Basta chiedere in giro. Gli abitanti del quartiere non sanno nemmeno dove siano. Gli autobus di qui non passano. Giorno e notte è un assordante abbaiare di cani chiusi in gabbia. Anemone e Malagò non avrebbero mai aperto una piscina in un posto del genere. E infatti i loro centri sportivi privati, il Salaria e l’Aquaniene, sono lontani chilometri. E pieni di iscritti.
Ma Valco San Paolo è un centro pubblico. L’abbiamo pagato 16 milioni. Fra tutte le architetture possibili, ne hanno scelta una tra le più coraggiose e meno economiche. Pilastri inclinati di 30 gradi. Copertura pesantissima in cemento armato. E giardino sulla copertura. Il polo l’hanno finito. E chiuso. Cade già a pezzi. Vengono giù i controsoffitti. E perfino le pareti e la volta di cemento sono segnate dalle crepe. Il perché lo si sa dall’inchiesta sulla cricca di Balducci: hanno rimosso i supporti quando il calcestruzzo non era ancora maturo. Ma all’unità tecnica di missione della presidenza del Consiglio non si sono arresi. Visto che il tetto ha qualche crepa, hanno affidato un nuovo appalto. Dice così il cartello di cantiere, abbandonato in una stanza: “Interventi urgenti per la messa in sicurezza delle strutture e la collaudabilità del blocco piscina coperta”. Non il collaudo. La collaudabilità. Il collaudo è pagato a parte. Progettista e coordinatore dei lavori del nuovo appalto è sempre lo stesso ingegnere che nella costruzione del polo di Valco San Paolo era responsabile unico del procedimento. Cioè la figura chiave che nell’interesse della pubblica amministrazione avrebbe dovuto verificare “l’esistenza di errori nel progetto esecutivo” ed “esercitare le funzioni di vigilanza in tutte le fasi di lavorazione”. Gli unici frequentatori delle piscine da qualche giorno sono quattro gattini appena nati e la loro mamma randagia. Una nursery da 16 milioni. Tutta per loro. Di questo, ovviamente, nel dossier che candida Roma (e l’Italia) al salasso delle Olimpiadi, non si parla.