Abbiamo perso le elezioni regionali. Ammetterlo è necessario per cercare di ripartire.

Si vince con un’identità, con prospettive politiche e con uomini validi”. Ce lo ha ricordato, ahinoi, il segretario della Lega in Veneto Giampaolo Gobbo, intervistato su “Repubblica” da Alberto Statera. Ed ha ragione. Identità, progetto e leader sono gli ingredienti indispensabili per cercare di vincere le elezioni. Il problema del Partito Democratico e del centrosinistra italiano è la mancanza di tutti e tre questi ingredienti in questa fase politica. Queste elezioni regionali non sono state vinte da Berlusconi, ma hanno registrato la sconfitta del centrosinistra. Il raffronto con le elezioni regionali di cinque anni fa è drammatico. L’allora Unione vinceva in undici regioni prendendo due milioni di voti in più del centrodestra con un’affluenza elevata, soprattutto nel voto del Lazio. Oggi in tredici regioni il centrosinistra perde oltre tre milioni di voti, più di un quinto di quelli raccolti cinque anni fa. Il confronto con il centrodestra appare impietoso. Nonostante il brusco calo dell’affluenza, invece, il centrodestra tiene, perdendo poco meno di 90 mila voti. In Campania addirittura ne prende mezzo milione in più, mentre in Veneto avanza di 170 mila voti.

Nelle regioni in cui il centrosinistra vince si registra un calo drastico dei voti. Il Partito Democratico perde tra un quarto ed un quinto dei voti nelle “rosse” Toscana ed Emilia Romagna. In Piemonte il Pd va addirittura sotto la somma di DS e Margherita del 2005. In Puglia si perde il 30% dei voti, mentre nel Lazio sfumano oltre 100 mila voti. Il dato complessivo per il Pd è un calo nazionale di oltre 1.750.000 voti. Non va meglio il resto della coalizione. Se il Pd è in forte calo, la sinistra radicale dimezza i propri consensi e rimane sostanzialmente ferma ai voti conquistati alle europee del 2009. L’Italia dei Valori in aumento non riesce, comunque, a compensare il calo dei voti, molti dei quali optano per l’astensione.

Nella nostra regione Renata Polverini è stata eletta presidente con il minor numero di voti mai ottenuti da un candidato di centrodestra. Sia nel 1995 con Michelini, che nel 2000 e 2005 con Storace, il centrodestra aveva sempre raccolto un po’ di più di un milione e mezzo di voti. La Polverini ha fatto risultato pieno ottenendo circa 100 mila voti in meno. D’altro canto il centrosinistra ha perso ben 300 mila voti dalla candidatura di Marrazzo nel 2005 a quella di Emma Bonino. Il 64,7% della diminuzione dei voti validi è, quindi, di elettori di centrosinistra scomparsi in questi ultimi cinque anni. Un dato che si consolida in maniera preoccupante visto che a Roma i voti validi tra le Europee e le ultime regionali sono gli stessi. E’ lecito, quindi, immaginare che vi sia una fetta di centinaia di migliaia di elettori di centrosinistra a Roma e nel Lazio (quasi 400 mila) che hanno abbandonato la coalizione dopo le politiche ed il primo turno delle comunali del 2008 e che non hanno più votato da allora. Un altro dato significativo è l’incapacità dei candidati scelti nel trainare le coalizioni. Nel 2005 il candidato Piero Marrazzo aveva ottenuto oltre 470 mila voti solo sul suo nome, ottenendo anche un risultato notevole con la propria lista civica. Circostanza che non si è ripetuta con la Bonino. Mancano all’appello infatti la metà dei voti sommando quelli attribuiti solo al Presidente, quelli alla lista civica e persino quelli alla lista dei radicali. Anche per la città di Roma non è il caso di usare toni trionfalistici. Se è vero che la Bonino ha vinto con un buon margine rispetto alla Polverini, bisogna registrare che la candidata radicale ha raccolto in città meno voti assoluti di quanti ne prese al primo turno delle comunali Francesco Rutelli.

Ne è esempio significativo il IV Municipio dove la Bonino pur essendo davanti di diversi punti percentuali rispetto alla Polverini, in termini di voti assoluti è ancora 1.000 voti sotto il risultato che ha consentito l’elezione di Cristiano Bonelli a Presidente.

La frana del Pd è più visibile a Roma. Si perdono circa 95 mila voti in un anno rispetto alle Europee e quasi 215 mila voti rispetto alle comunali. Cifre che non vengono compensate dall’Italia dei Valori di Di Pietro che aumenta di 75 mila voti, mentre rimane sostanzialmente invariato il bottino di voti delle forze provenienti dalla Sinistra Arcobaleno in eterna composizione e scomposizione. Va detto, poi, che le liste del centrosinistra presentavano meno novità e rinnovamento di quelle del centrodestra. Il dato numerico ci dice che i candidati del Popolo della Libertà più la Lega sono più giovani in 8 regioni su 13. Tranne nel caso dell’Umbria, il centrosinistra non presenta candidati nati dopo il 1965. Il centrodestra presenta invece 6 candidati sotto i 45 anni, mentre il centrosinistra aveva ai blocchi di partenza ben 4 over 60 ed un settantenne. Non si discute, in questa sede, il giovanilismo in se, ma appare certo come la presentazione di candidati giovani significhi investire su una classe dirigente nuova e di prospettiva, a volte proveniente dalla società civile. Il caso più eclatante è quello rappresentato dalla Lega che è il partito più vecchio presente in Parlamento e che ha già prodotto con i vari Zaia, Cota, Tosi e Salvini una generazione di governo diversa da quella degli anni novanta incarnata da Bossi e Maroni.

Nel Partito Democratico non ci sono casi di promozione dei giovani. Ci sono tre esempi, però, che possono consentirci una riflessione. Il primo è Nicola Zingaretti, 45enne, relegato alla Provincia di Roma ed ad eterno rischio “bruciatura”. Il secondo è il Sindaco di Firenze Renzi, uomo di una parte dell’establishment fiorentino per nulla rivoluzionario. La terza è Debora Serracchiani esplosa per una rivolta individuale, accentuata da facebook e dai social network, già cooptata e mandata a farsi le ossa nell’Erasmus europeo. In sostanza un vuoto assoluto di cui è colpevole l’immobilismo della generazione nata fra gli anni settanta e gli ottanta. Trentenni e quarantenni non occupano nessun ruolo chiave né nel Partito Democratico né tanto meno nelle amministrazioni. I nuovi quadri politici non lottano per avanzare proposte e presentarsi quali leader, piuttosto tendono ad uniformarsi alla media, alla ricerca di un posto nell’immobile fila delle correnti.

Per capire il presente è necessario fare un passo indietro nel passato. Con Romano Prodi non c’era un leader, ma esisteva una proposta politica forte: l’ingresso in Europa, il risanamento dei conti pubblici, la riforma dello Stato sociale. C’era anche un soggetto politico: l’Ulivo, una composizione di partiti in grado di tenere al proprio interno cattolici, comunisti, borghesi, operai, antipolitici e persino antagonisti. Prodi rappresentava un anti-leader senza carisma, ma proprio per questo credibile perché capace di anteporre se stesso al progetto politico.

Poi è arrivata la stagione del leader senza progetto politico e partito. Il 2007 della speranza incarnata da Walter Veltroni, sindaco di Roma capace di vincere con oltre il 60% dei consensi nella capitale (un miraggio lontano solo quattro anni). La scommessa del convincere gli italiani di essere migliori della classe politica al governo, di poter combattere le mafie, di sconfiggere l’evasione fiscale per poter ridistribuire la ricchezza. Idee di sinistra che hanno trascinato il neonato Pd al 33 per cento, un miraggio anche questo, dissoltosi in pochi mesi dopo la sconfitta elettorale a causa dei cecchini interni al partito, posizionati dalla correnti i cui vertici assomigliano sempre di più ad una pletora di frustrati incapaci di ottenere risultati politici.

Con Bersani oggi il Pd e il centrosinistra è senza identità, senza progetto e purtroppo anche senza leader. E non parliamo soltanto del segretario, ma anche delle altre figure nazionali. Prendiamo ad esempio Emma Bonino, la “fuoriclasse”, come la definì Bersani. La sua candidatura è risultata sgradita a parte dell’elettorato cattolico del Pd che non è andato a votare, a fasce di elettorato popolare dell’hinterland laziale e della periferia romana che non sono riusciti a vederla in campagna elettorale e perfino ad una parte dell’elettorato di sinistra che non si è fidata degli ondivaghi posizionamenti politici di Pannella e Co. Un quadro che era chiaro a qualsiasi militante attivo sul territorio, ma completamente oscuro ai leader regionali e nazionali del Partito.

Il Partito Democratico che avrebbe dovuto sostenere la fuoriclasse si è occupato della “propria” campagna elettorale, accentuando lo scontro sulle preferenze. Il risultato è stata la rielezione di tutti i possibili consiglieri regionali uscenti. Ovviamente di sesso maschile così come in Calabria. Come in una caserma o in un circolo massonico, le donne sono state escluse ancora prima del voto. Lo erano già nella presentazione delle liste, nelle quali figuravano come comparse, mogli, segretarie, amiche e quanto altro. Una vergogna: le donne elette nel Pd in tutta Italia sono 35 su 218. Un dato che da solo avrebbe dovuto provocare le immediate dimissioni di tutta la classe dirigente di un partito che nel proprio statuto prevede il 50% destinato alle donne. Un quadro che fa rimpiangere anche le liste bloccate, dove almeno qualche donna bisogna pur metterla per fare vetrina.

E’ questa ipocrisia del Pd che conduce alla sconfitta. Questo stralciarsi le vesti quando Berlusconi considera le donne oggetto, per poi essere noi i primi a svilire il loro ruolo nella società. La classe dirigente del Partito Democratico e del centrosinistra ha fallito. Semplicemente perché non ha, ormai da anni, un progetto politico. Quei pochi leader che hanno avuto il coraggio di confrontarsi sulle cose da fare, sulle idee per il futuro e non semplicemente contro Berlusconi hanno sempre vinto. Prodi in passato. Vendola nel presente. Domandiamoci perché Berlusconi non è andato in Puglia ad affrontare Vendola, ma nel Lazio a sostenere la Polverini. La risposta è semplice. La Bonino non rappresentava nulla di nuovo e il suo unico punto programmatico è stato proprio l’antiberlusconismo che qualcuno voleva abolito. Un tavolo da gioco ormai perdente per il centrosinistra.

Cosa fare per il futuro? Innanzitutto ammettere la sconfitta. Basta con analisi autoconsolatorie e buoniste. Abbiamo perso. Certo che sopravvivremo, ma non è per questo che ognuno di noi toglie tempo alla propria vita per dedicarlo alla politica. Non è per sopravvivere o vivacchiare alla giornata. Sopravvivere non basta più, bisogna tornare a vivere. A parlare, costruire, sfidare, inventare ed anche sognare un Paese diverso. Con nuovi leader.

Mandando in pensione quelli che non sono riusciti ad ottenere risultati e che non vengono toccati dalle sconfitte perché orami sicuri di mantenere comunque le proprie poltrone. Il primo principio da far passare per rinnovare il Pd è la norma delle dimissioni automatiche. Se si ricopre un ruolo di dirigenza e si perde, si lascia spazio ad altri. Senza se e senza ma.

Ci vuole soprattutto un nuovo progetto politico che sappia riportare al centro le persone, le donne e i più deboli. Con un soggetto politico vero che non sia schiavo del correntismo e che sia largamente aperto alla società civile, a nuovi soggetti, ai tanti movimenti che animano le piazze reali e virtuali. Bisogna cambiare parole d’ordine, saper comunicare con la lingua del popolo e scendere dal piedistallo di una presunta superiorità morale che deve essere guadagnata giorno per giorno. 

E’ arrivato il momento di dire basta. Basta giudicare un politico da un bel discorso o dalla propria carriera passata. Ci vuole una classe dirigente nuova che sappia misurarsi con i contenuti del proprio tempo e che sappia accettare sempre i risultati dei numeri. Il tempo è scaduto. Bisogna rialzarsi e tirare dritto, senza guardare in faccia nessuno ed assumendoci noi le responsabilità. Senza aspettare che qualcuno ci indichi la strada, ma iniziandola a percorrerla fin da ora.

Negli attuali partiti se saranno in grado di rigenerarsi o in altre esperienze costruite dal basso se sarà necessario. Con la convinzione che coloro che non ci votano, non sono degli stupidi che non ci capiscono, ma delle persone a cui non siamo più capaci di parlare.

Riccardo Corbucci

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